Afghanistan, un nuovo kamikaze ne testimonia la crisi culturale

Altra tragedia in Afghanistan. Un attentatore suicida ha deciso di togliersi la vita davanti al ministero dello sviluppo rurale a Kabul. La sua scelta scellerata ha provocato 7 morti e 15 feriti in un paese dilaniato da lotte interne, guerriglie armate e arretratezza culturale. Da anni la crisi di questo paese sembra dilagare, senza nessuno spiraglio di luce. Gli americani dichiarano fallimentare il piano di aiuti che prosegue da 15 anni e la speranza di risanare il paese sembra spegnersi lentamente. 

Afghanistan

Un paese in crisi culturale

Tra le tante notizie che si sono susseguite negli anni sui kamikaze in Afghanistan, questa attira l’attenzione più di altre. A destare scalpore è proprio il luogo dell’incidente, il ministero dello sviluppo rurale. La bomba non ha colpito solo il sito, ha colpito un concetto, un’idea, una speranza. È stato bombardato lo sviluppo, la voglia di andare oltre, di crescere e non pensare ad una situazione tragica che accompagna le sorti di un paese in decadenza. Perché questo rappresenta lo sviluppo, che sia esso rurale, economico o sociale, lo sviluppo  accende una candela nella notte mediorientale, che ogni giorno rischia di essere spenta.

Essere bambini in Afghanistan

Per meglio testimoniare la criticità riportata dai media, può essere utile studiare le situazioni in cui nascono e crescono i bambini. Questo dato dice molto di un paese. Per crescere è fondamentale investire sui giovani, aiutarli a formare la propria coscienza e uno spirito critico. Un paese che non lascia vivere serenamente i propri abitanti del domani è un paese senza futuro e l’Afghanistan detiene l’ultimo posto nella classifica mondiale su dove far nascere un bambino. L’america, a capo di una coalizione internazionale, dopo aver sovverchiato il regime talebano, ha cercato di garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e del fanciullo. Il problema è che in Afghanistan “Esistono tanti bambini, ma non esiste più l’infanzia”. Il 40% dei ragazzi tra i 7 e i 16 anni hanno perso il diritto al gioco e all’istruzione. Costretti a diventare adulti troppi in fretta, a causa di soprusi, violazioni e sfruttamenti, sviluppano meccanismi logici e inconsci conditi da violenza e turbamenti interiori. Non si tratta di turbamenti giovanili tradizionali, come il rifiuto o l’insoddisfazione, ma vivono e vedono situazioni irraccontabili. In molte zone rurali l’unica legge che ha valenza è ancora quella della Sharìa. Pratiche barbare come l’aborto selettivo, l’infanticidio, il ricorso ai bambini soldato e il matrimonio con spose bambine, usato anche come riparazione ad uno stupro, sono solo alcune delle terribili prospettive di vita che si prefigurano nel futuro prossimo di un nascituro. Così un bambino afghano diventa adulto, ancor prima di essere adolescente.

Il piano americano

L’america, dopo essersi autoimpartita l’arduo compito di esportare democrazia, ha cercato per anni di risollevare le sorti dell’Afghanistan. Nel 1998 i talebani presero il potere, eliminando quasi completamente l’opposizione politica e tenendo sotto scacco il 90% del paese. Ogni consiglio elettivo divenne ininfluente e la Sharìa tornò ad essere la legge fondamentale dello stato. Vennero espropriati i diritti delle donne, che non detenevano più alcun ruolo sociale. Lo stato divenne così la culla del fondamentalismo islamico e la sede delle attività terroristiche di Al-Qaeda. Dopo l’attentato delle torri gemelle e il rifiuto del governo di consegnare il fautore Usama Bin Laden, gli americani risposero al fuoco. Entro la fine del 2001 il regime talebano risultò così rovesciato. Gli scontri interni continuarono senza sosta e la presenza americana in suolo afghano si rivelò pertanto necessaria.

Afghanistan

Le elezioni presidenziali dirette del 2004 confermarono Karzai come capo dello stato, ma la sua giurisdizione non si estendeva oltre la capitale. Fuori Kabul i signori della guerra e i trafficanti dell’oppio continuavano a controllare il territorio. Così lo scontro si radicalizza ed acquisisce i connotati della guerra infinita. Ciò che si combatte però non è più un uomo, o un’organizzazione terroristica, è un concetto, l’odio del diverso. Si combatte la volontà talebana di schiavizzare il pensiero libero occidentale. Probabilmente non saranno le armi a a decretare la fine dell’odio, per questo motivo l’attuale governo afghano cerca incontri diplomatici con i ribelli fondamentalisti, ma chissà cosa sarebbe successo ad un inerme “stato” lasciato solo a combattere il fanatismo islamico. In ogni caso la fine del conflitto è ancora lontana e quell’odio una volta circoscritto al medioriente si diffonde a macchia d’olio grazie alla globalizzazione. Scardinarne le fondamenta risulta imperativo, così come far cessare ogni pensiero unico che altro non può produrre se non un unicum, ovvero la cessazione dell’unico valore insostituibile, la libertà.