Leopardi: il turbamento dell’ignoto percepito come “Cosa Arcana e Stupenda”

Espressione più compiuta della riflessione Occidentale, nonché acme del Romanticismo mondiale, il pensiero poetante di Leopardi dà voce alle più recondite paure, alle più intime speranze, al più vivo dolore e alle gioie più autentiche dell’essere umano. Al pensatore delle “Operette Morali” fa da contro canto il geniale poeta degli “Idilli” e delle “Canzoni”. Alla sua arte, tormentata, insistentemente cesellata, dalla trasparenza viscerale, risponde la profondità della tensione filosofica che, pur prestando la sua opera all’attenta e pregnante analisi di grandi filosofi quali Emanuele Severino (di cui vale la pena citare il saggio “Cosa Arcana e Stupenda”), non esaurisce la grandezza di un autore che, nonostante si consumi in una riflessione inesauribile, non ha la pretesa di dare risposte e assomma, invece, nella sconfinata varietà della poesia, la contraddizione dell’umano. Non esiste un’unica verità possibile, quanto, piuttosto, le infinite sfaccettature di un’esistenza che non può essere spiegata. Il neoclassicismo della sua opera è attraversato dall’inconsapevole incarnazione del Romanticismo più autentico, di cui accoglie il tormento del sublime. Tuttavia Leopardi non parla mai direttamente di “sublime”, ma di “stupendo” termine che deriva dal latino stupeo, a sua volta dal greco typtei e anche typto, “batto, percuoto”: cosa arcana e stupenda è, dunque, cosa capace di affascinare e attrarre, ma anche e soprattutto di atterrire e angosciare.

La vita: “Cosa Arcana e Stupenda” e “Punto Acerbo” nell’eternità del nulla

“Che fummo?/ Che fu quel punto acerbo/ Che di vita ebbe nome?/ Cosa arcana e stupenda/ Oggi è la vita al pensier nostro, e tale/ Qual de’ vivi al pensiero/ L’ignota morte appar”. Giacomo Leopardi, Il coro dei morti, dal Dialogo tra Federico Ruysch e le sue Mummie, Operette Morali

È notte fonda quando Federico Ruysch viene svegliato dal canto dei morti risorti: si sta, infatti, compiendo “l’anno grande e matematico”, ossia quel momento del quale anche gli antichi parlavano (lo cita ad esempio Cicerone nel suo “Somnium Scipionis”) in cui tutti i pianeti si ritrovano contemporaneamente nella stessa posizione in cui ebbe inizio il loro moto e ai vivi è data la possibilità di porre ai defunti ogni domanda desiderino. Già nelle opere più antiche di cui ci sia giunta testimonianza i morti vengono investiti di un’onniscienza faticosamente conquistata: celeberrime sono le profezie provenienti dal regno dell’oltretomba di cui i due poemi omerici sono ricchi. E forse è proprio questa certezza disattesa a generare il grande sconcerto del lettore quando scopre che le mummie di Federico Ruysch sono inabili a concedere ogni spiegazione: pur essendo giunte al culmine delle loro possibilità conoscitive, pur essendo giunte dinnanzi al più grande segreto cosmico, sono incapaci di rivelarlo. Perché non c’è niente da svelare. Agli occhi dei defunti la vita è “confusa ricordanza”, niente più di un “sudato sogno” di cui si ricorda un vago “antico dolor”: amaramente i morti mostrano a Federico Ruysch che non c’è spiegazione all’immenso mistero della vita. Essa, come magistralmente spiega Emanuele Severino, non è nulla più che una fatalità, frutto di un casuale incontro tra l’Essere e il Nulla. Nell’orizzonte materialista di Leopardi, che introietta e rinnova principi già lucreziani, l’unica entità eterna possibile è proprio il Nulla, nella dimensione del quale la vita non costituisce che un “punto acerbo, fiamma casuale pregna di dolore e indicibile gioia.

La beatitudine proibita: la sofferenza del desiderio frustrato e di quello negato

“Come da morte/ Vivendo rifuggia, cosí rifugge/ Dalla fiamma vitale/ Nostra ignuda natura/ Lieta no ma sicura;/ Però ch’esser beato/ Nega ai mortali e nega a’ morti il fato”.Giacomo Leopardi, Il coro dei morti, dal Dialogo tra Federico Ruysch e le sue Mummie, Operette Morali

 Il destino di “ogni creata cosa”, che in quanto tale non può che essere peritura, è di esaurirsi nell’eternità del nulla. La morte è, infatti, concepita come un graduale spegnimento dei sensi che reca con sé la liberazione dell’uomo dal dolore. Per questo la natura umana, nuda come quella della terra che l’accoglie, si posa nella morte “sicura dall’antico dolor”, serena cioè nella sua consapevolezza di non poter tornare all’esistenza, latrice di sofferenza. L’angoscia esistenziale, anch’essa di matrice lucreziana e prima ancora epicurea ma innovata da Leopardi, deriva in parte dalla paura della morte (che non c’è motivo di temere in una prospettiva materialistica) ma, soprattutto, dalla continua frustrazione del desiderio: nell’eternità del nulla, invece, lo “arido spirto” è svincolato da ogni naturale speranza e desiderio, la cui assenza garantisce ai morti il distacco dal dolore. Tuttavia il fato nega la beatitudine tanto ai vivi quanto ai morti, ai primi per la loro logorante insoddisfazione e ai secondi per la mancanza di essa: non conoscere frustrazione significa, infatti, non desiderare. Leopardi non risponde al dubbio se sia meglio desiderare per essere disillusi o non desiderare affatto, ma nella genialità della sua poesia registra la contraddizione facendo sì che gli opposti non si intralcino reciprocamente ma anzi si nutrano l’uno dell’altro. Quello che è stato banalmente e a lungo identificato con mero pessimismo, è in realtà la  grandezza di un’anima che, sullo sfondo del romanticismo, tende alla sconfinata malinconia di chi è attaccato alla vita con l’amara consapevolezza di non essere eterno.

Or poserai per sempre,/ Stanco mio cor. Perì/ l’inganno estremo,/ Ch’eterno io mi credei. Perì.

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