Che sia sui piccoli o sui grandi schermi, ormai gli adattamenti ed i revivals di grandi opere letterarie fanno da veri e propri protagonisti. Maestri di una cultura tradizionalmente alta come Shakespeare, Hemingway, Austen o Fitzgerald sono sempre più obbligati ad adattarsi alle ridotte dimensioni di un apparecchio televisivo. Secondo alcuni, in questo modo vengono terribilmente snaturati e privati del loro originale spessore. Ma è davvero così? I new media stanno realmente distruggendo la magia di questi grandi autori, o al contrario stanno donando loro una nuova vita, più alla portata di tutti?
Il mondo mediale, fin dalla sua nascita, non è mai stato caratterizzato dalla staticità. In pochi secoli è avvenuta un’escalation tecnologica immensa. Questa, se ci si pensa, è però partita dalla semplice carta stampata. I libri erano infatti i luoghi dove chi istruiva gli altri, istruiva prima se stesso. Strumenti preziosi nelle mani di coloro che potevano permettersi un’educazione.
Proprio per questo, almeno inizialmente, le lettere scritte con l’inchiostro erano associate a quella fetta di cultura definita alta (la high culture, detta all’inglese). I libri servivano ad educare, a trasmettere notizie a persone di una certa levatura sociale, con determinati interessi e bisogni.
La letteratura che esprimono si va infatti a collocare molto in alto nella scala culturale. Così facendo, si allontana però drasticamente dalla popolazione comune, a cui potrebbe sembrare un traguardo irraggiungibile. Ma questo è un atteggiamento errato. La letteratura considerata alta insegna a vivere. È necessario trovare un modo valido per diffonderla a tutta la popolazione, così da permettere di aumentare sempre più la loro conoscenza. Inoltre anche l’apertura mentale e la consapevolezza di loro stessi si sviluppano con essa.
Non esiste dunque almeno un modo in grado di avvicinare i cosiddetti classici, le pietre miliari della storia umana, a quel ramo della popolazione che volge ad interessi più modesti, semplici?
Gli adattamenti, un amo et odio
Un modo esiste: l’utilizzo dei media considerati più popolari e vicini alla striscia di pubblico che ci interessa, come finestra su di un mondo altresì troppo lontano, come è quello dell’alta letteratura. Come è possibile sfruttarli a questo scopo? Attraverso gli adattamenti, che si plasmano su ogni medium, per quanto trash esso possa sembrare.
L’adattamento, secondo le informazioni de ‘I Mille volti di Shakespeare nella cultura di massa‘ di Cristina Vallaro, è un processo che comporta l’adeguarsi dell’opera originale al contesto nuovo nel quale essa è inserita. In questo caso, l’opera è filtrata dalla sensibilità di quel determinato medium e tempo. Inoltre si può dire che l’adattamento, nonostante abbia solide basi alle spalle, sia ogni volta una nuova creazione. Si parla quindi di un fenomeno di traduzione intersemiotica, cioè da un medium con determinate caratteristiche ad un altro con un sistema espressivo completamente diverso.
Che sia come sia, gli studiosi esperti di quell’alta cultura non sempre li vedono di buon occhio, accusando allo svilimento dell’opera originale. Sebbene sia una tesi interessante, non è sempre quello che accade. Si pensi a Shakespeare. La sua grandezza sta nel magistrale uso della lingua, dettaglio che lo differenziava da tutti i suoi contemporanei. In un teatro della parola come quello elisabettiano, dove quello che contava era il come ci si esprimeva, Shakespeare eccelleva. Ma il Bardo è ricordato anche per la sua bravura indiscussa nell’analisi dell’animo umano. Lo capiva e lo riportava su scena così come realmente è. I suoi personaggi sono creature eterne, valide nell’Inghilterra Elisabettiana così come nell’universo odierno.
Inoltre i suoi spettacoli erano costruiti per un pubblico vario, che accoglieva tutte le diverse classi sociali. Il suo linguaggio studiato accompagnava vicissitudini che dovevano essere comprese dai colti così come dal popolino. In questo senso, Shakespeare al suo tempo si posizionava esattamente a cavallo tra quelle che abbiamo definito high culture e low culture. Di conseguenza è errato considerare i numerosi adattamenti shakespeariani come insulti alle grandi opere del maestro se non vanno a ricoprire quei canoni classici imposti chissà da chi e chissà quando.
Certamente gli adattamenti devono venir considerati come punti di partenza alla conoscenza dell’opera originale. Per conoscere un’opera si deve necessariamente studiarla per come è stata creata. Ma ciò non toglie che i suoi ‘doppioni’ costituiscano un valido porto di imbarco per accogliere un po’ di high culture nella low culture. E questo, solo i new media riescono a farlo del tutto.
La televisione
La televisione è il nuovo medium per eccellenza, sorpassato solo da Internet in questo senso. Il piccolo schermo è lo strumento che ha messo in crisi i media tradizionali. Ma come è nato e quale era la sua funzione?
Proprio come i suoi predecessori, anche il televisore parte dal concetto teach and delight. Mantra ideato nel Regno Unito, ‘insegnare divertendo’ (o, ancora meglio, ‘educare, informare, divertire’) era molto apprezzato in Italia. Nel Bel Paese infatti, soprattutto negli anni ’50, la popolazione necessitava di un’istruzione visti gli alti livelli di analfabetismo. I programmi che passavano erano dunque quasi completamente finalizzati ad educare il pubblico: lezioni dove si insegnava l’alfabeto e a leggere, inchieste volte alla scoperta dell’Italia così da aumentare la conoscenza del proprio paese… la pubblicità era addirittura vietata, perché considerata come un mezzo che deviava dalla missione primaria, svendendo la qualità.
Ai nostri giorni la situazione è però completamente rivoluzionata. Con la nascita del trash, della ‘tv spazzatura’, le mire degli ideatori dei programmi sono cambiate. Ciò che importa ora è l’adattamento, in ogni modo, al gusto del pubblico, che si è fatto sempre più basso e superficiale. Lo spessore culturale di questo medium è dunque drasticamente calato. La tv ha dunque perso tutto il suo potenziale educativo?
Dal piccolo al grande schermo
Un discorso analogo si potrebbe fare per il cinema. Molti dei film che passano al botteghino sono infatti di una qualità discutibile. Il cinema sta accogliendo sempre di più elementi, per così dire, low culture tra le sue file. Non sempre ovviamente con low culture si intende ‘di basso livello’, ma sicuramente non paragonabile con certe pellicole engagées che una volta calcavano da sole i tappeti rossi dei Festival. L’intero mondo dei new media sta dunque iniziando una caduta inesorabile verso un tartaro di desolazione ed inutilità?
La rivincita dei new media
Ovviamente, la risposta è no. Nonostante il trash stia dilagando, la loro vicinanza con le persone comuni offre loro ancora una volta la possibilità di essere finestre sul mondo che ci circonda, oltre che su quello della high culture. Avendo un pubblico variegato, la tv come il cinema possono ancora immolarsi alla causa della cultura, esattamente come faceva il teatro del 16° secolo. È ancora possibile dunque, nonostante tutto, portare nelle case e agli occhi di tutti quel mondo così tanto apparentemente distante della letteratura. Paradossalmente, la tv soprattutto rimane essenziale nella lotta contro l’ignoranza.
Simba-Amleto, principe della Savana
Gli adattamenti di grandi opere letterarie sul grande e piccolo schermo sono dunque essenziali in un’ottica di conoscenza maggiorata e più matura. La domanda da porsi è: fin quanto è possibile allontanare l’adattamento dall’idea originale per far sì che ancora funzioni? I registi, molte volte, di certo non si sono trattenuti nel riportare una determinata storia, aggiungendole quel loro tocco personale. Seppur sia vero che talvolta questo cada nell’eccesso, qualche adattamento più ‘originale’ non manca di riservare sorprese.
È questo il caso de ‘Il Re Leone’, film della Disney uscito nelle sale nel 1994. La storia del piccolo Simba ha appassionato sia grandi che piccini. Le musiche grandiose, i colori decisi, i personaggi divertenti sono alcuni dei motivi per cui questo cartone ha conquistato il cuore di tutti.
Ma a pensarci bene, la sua storia ne richiama un’altra, scritta molti secoli prima. L’Amleto di William Shakespeare è un giovane principe che, dopo la morte del padre, si vede strappare il trono dal perfido zio Claudio. Questo non solo ha ucciso il fratello per sottrargli la corona e la sposa, ma per tutto il play medita su come sbarazzarsi anche del nipote, che dopo aver scoperto tutto si finge pazzo. ‘La follia dei grandi -secondo Claudio- non va mai sottovalutata’. Per questo orchestra un finale tragico per Amleto, che però gli si ritorcerà contro, portando al finale tragico.
Nonostante la notevole differenza di luogo e di spazio, oltre che di finale, le due storie si rassomigliano molto. La Disney con questo cartone animato ha fatto comprendere come sia possibile non solo attualizzare le opere di Shakespeare, duttile per natura, in qualunque epoca, ma anche renderle a portata di bambino. Quello stesso bimbo che nel ’94 si era perso nell’immensità della savana, anni dopo potrebbe da lì partire per l’avventura della scoperta del Bardo inglese.