Il complesso tessuto narrativo di Lost trova la sua piena realizzazione nell’enigmatico finale, che ha diviso i fan e sconvolto la critica. Parafrasando Kant, la serie incarna a tutti gli effetti un’idea estetica, opera di un genio creativo: ne riconosciamo la natura eccezionale, non intuitiva, legata a un’inedita immaginazione produttiva. E siamo disposti a lasciar correre sulle assurdità della trama.
L’intreccio di una narrazione (che chiamiamo fabula, trama o plot) annoda l’insieme dei fatti di una storia, la cui successione non segue necessariamente un ordine logico (causa-effetto) o cronologico usuale, ma rispecchia una scelta arbitraria del narratore. Manipolando a effetto tempo e connettivi logici, infatti, si può sgasare verso la suspense o rallentare ad arte verso toni dimessi e introspettivi. In pratica, a seconda dei propri fini espressivi, il narratore domina lo spaziotempo dell’orizzonte degli eventi che narra. Nel suo commovente, millenario impegno a trovare una grammatica del pensiero e del linguaggio umano, la retorica ha cristallizzato in nomi e specifiche questi strumenti a disposizione del narratore.
Analisi, ellissi, prolessi, analessi. Musica e parole di un qualsiasi dizionario di figure retoriche. Nell’analisi si sospende il tempo oggettivo, dilatando a dismisura quello narrativo (pensate a come il tempo scorra lento nella Casa di Carta o durante il Bloomsday, eternato nell’Ulisse di Joyce). Al suo estremo, c’è l’ellissi, fatta per aumentare i battiti della narrazione, affastellando gli eventi, tralasciando quelli privi di interesse, permettendo al narratore di saltare porzioni di tempo non significative. La prolessi ci spara in un lampo in avanti (flashforward, appunto), verso accadimenti ancora da avvenire. L’analessi ci lascia spiare nel tempo che fu, per comprendere meglio le dinamiche del presente (flashback).
Che cosa sarebbe successo se…
“All’inizio decidemmo che sebbene Lost fosse una serie che riguarda persone su un’isola deserta, in realtà, metaforicamente, riguardava persone perdute e alla ricerca di un significato e un obiettivo per le loro vite”, dice uno dei produttori esecutivi della serie, Damon Lindelof. Per il finale cervellotico e certe scelte d’intreccio, la narratologia è stata scomodata per partorire un nuovo lampo nel tempo della narrazione e della storia. Chiamiamo flash sideways un tempo (presente, passato o futuro) in cui l’intreccio si svilupperebbe se (e solo se) uno o più protagonisti avessero fatto scelte (decisive) diverse da quelle che gli abbiamo visto compiere nella trama normale. È lo stratagemma delle sliding doors (dal film onomimo), che esplode appena tocchiamo lo spaziotempo, viaggiandoci a piacimento. È uno dei due produttori esecutivi appunto a spiegarne l’introduzione. Con un commovente candore da prestigiatore costretto suo malgrado a rivelare il suo prestige, rivela come questa curiosa scelta narrativa fosse necessaria, una volte esaurite tutte le autostrade temporali canoniche. Avanti e indietro nel tempo dell’universo: fatto. Perché non deviare ed entrare nel tempo del multiverso (come succede, per dire, in Ritorno al Futuro 2)?
L’esibita e, a tratti, compiaciuta complessità narrativa della serie non ha scoraggiato i fan, che, anzi, ne sono rimasti deliziati. L’uomo, dice Kant, è portato a soprassedere sulla logica a patto di trovarsi di fronte a un’opera d’arte. Un prodotto organizzato di una mente libera può produrre in noi un piacere così intenso da farci dimenticare il contesto e anche la palese mancanza di logica che la trama di Lost esibisce con orgoglio. La complessità di Lost è un’idea estetica che ci affascina, ci strappa dal consueto, ne riconosciamo l’impronta del genio. Colui che suscita simili idee, in grado di stiracchiare le possibilità umane, costringendo l’immaginazione (umile fotocopiatrice in facsimile logico-spazio-temporale del mondo esterno) a produrre. Nella Ragion Pura leggiamo che è impossibile un’intuizione intellegibile (il pensiero pensa, non immagina), nel Giudizio aggiungiamo questa possibilità creativa della mente, con costrutti immaginativi (l’opera del genio, l’opera d’arte). Siderali, iperbolici, iperstimolanti: i prodotti del genio non hanno mai un’adeguata intuizione sensibile (infatti, balbettiamo cose tipo “somiglia a”, “ricorda”, “suggerisce”) a suffragio. Un modo bellissimo per definire il loro carattere sfuggente: nessuna delle interpretazioni di un’opera è definitiva. Non proibisce e non esaurisce, insomma, altre interpretazioni.
Lost ci ha fatto pensare, e molto. E pure inveire e dibattere (chi non ha mai consultato lostpedia?). Ed è proprio questo il bello dell’arte: non farsi mai incastrare e alimentare un gran dibattito. “Per questo sentivamo che il finale dovesse essere molto spirituale, e che parlasse di destino. Abbiamo avuto lunghe discussioni riguardo la natura dello show, per molti anni, e alla fine abbiamo deciso che avessimo bisogno di qualcosa che per noi significasse molto per quel che riguardava i nostri valori, ciò in cui credevamo”, continua Lindelof.
Ridatemi i miei soldi e il mio tempo
Tutto vero, però, a margine viene rabbia. La partecipazione attiva alla narrazione è cosa buona e giusta, ma nessuno si accorge del suo peso. Lo spettatore\lettore\ascoltatore completa con la sua performance ermeneutica i punti da unire abbozzati dalla trama. Ci sono trame da congetturare, interpretazioni da abbozzare, spiegazioni da farsi venire in mente. Tutti questi spasmi interpretativi sono destinati a una nobile ma sonora débâcle. Con sadismo, ogni pista passabile viene bruciata, la nostra corsa alla comprensione (che ci viene richiesta con una certa insistenza) sbatte il muso contro un vicolo cieco. Senza bussola, più interpretiamo e meno capiamo del tessuto narrativo. Ripartiamo, con una ruga di scoraggiamento in più e quell’espressione sempre meno convinta della nobiltà della sconfitta. La ricerca del senso si spegne con la consapevolezza della sua totale mancanza. O, peggio, con la scomparsa di un trucchetto che puzza di plastica combusta (Kaiser Söze, che tu sia maledetto in excelsis) I veri eroi siamo noi fruitori della narrazione, alla prese con l’El Dorado ermeneutico che è sempre meno vicino. Nel Nuovo Organo, Bacone ammoniva in questo modo la futura schiera di narratori contemporanei: “citius emergit veritas ex errore quam ex confusione“.
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