Ascoltiamo la voce “Controcorrente” dei Supertramp nel dibattito incentrato sulla definizione del proprio io

Quello della definizione dell’ io è uno dei processi più complessi con cui l’essere umano è costretto a fare i conti. È proprio nella labilità dei confini  identitari che alberga il dubbio: è preferibile seguire il percorso solcato dalla società o scrollarsi di dosso aspettative e pregiudizi per trovare in solitaria la vera identità che abita dentro ognuno di noi?

Attraverso l’esperienza di Joris-Karl Huysmans e del co-frontman dei Supertramp, scopriamo perché scoprirsi sia preferibile all’essere scoperti.

JEAN DES ESSENITES

Capolavoro di Joris-Karl Huysmans, “à rebours” (“Controcorrente”)si configura a tutti gli effetti come la Bibbia di quella generazione di artisti che, con il senno di poi, saranno chiamati “decadenti”. Nel testo è presente un unico personaggio, Jean des Esseintes, che vediamo muoversi in questa grande e barocca dimora da lui vestita a sua immagine e somiglianza, nella quale viene celebrato quotidianamente un unico culto: l’eccezione. Per fare in modo che questo rituale fosse eseguito con la giusta costanza e devozione, il protagonista ha fatto voto alla solitudine, coltivando un continuo dialogo con i suoi stessi pensieri attraverso i quali i lettori sono trasportati in una dimensione al limite del metafisico. Ciò che sorprende è che lo stesso autore, grazie alla stesura di questo romanzo, ha avuto modo di indagare la sua personalità, scoprendo lati di sé che fino a quel momento non era riuscito a focalizzare. È quindi necessario sviscerare l’eccesso per riuscire a fare pace con il mondo? Secondo Huysmans si. È proprio da questo romanzo beffardo che infatti l’autore trarrà la linfa della propria fede, unica consolazione per i tormenti scovata nell’intimo del suo cuore durante la percorrenza di una via alternativa alla società, sia da un punto di vista letterario attraverso il progressivo allontanamento da Balzac e Zola, sia da un punto di vista personale attraverso quella che si configura come la gemella “dark” delle “Confessioni” di Sant’Agostino.

THE LOGICAL SONG

Uscita nel 1979 , The logical song è forse la traccia più iconica dei Supertramp, la rock band britannica che negli anni ‘70 ha campeggiato in primissimo piano nel panorama musicale mondiale. Con i loro testi dai contorni sfumati e dalle melodie psichedeliche, i Fab-5 si sono presentati al mondo come gli eredi di Genesis, Pink Floyd e Traffic, diventando in poco tempo il fiore all’occhiello del genere “prog” esploso negli anni Sessanta nel continente europeo. L’album che ha aperto ai cinque giovani le porte dell’Olimpo, è senza dubbio l’iconico Breakfast in America uscito il 29 marzo 1979, scrigno dai tesori immortali destinati a rendere grande il nome dei cinque protagonisti degli anni ‘70. Tra tutte, forse, la traccia che ha raccolto consensi universali è stata The logical song, il personale racconto degli anni vissuti in collegio dal co-frontman del gruppo Roger Hodgson che, memore della sua esperienza traumatica, ricerca il proprio io facendosi strada tra le numerose etichette con cui è stato costretto a convivere sin dalla tenera età. Lo stesso  autore ha infatti dichiarato che la traccia sia “nata dalle mie domande su ciò che davvero conta nella vita”, aggiungendo che “durante l’infanzia ci vengono insegnati tutti questi modi di essere” ma “raramente ci viene detto qualcosa sul nostro vero sé”. È quindi in quell’accorata richiesta di aiuto che si condensa il senso dell’intero testo, è in quel “please tell me who i am” che la realtà personale si fonde con quella sociale, rivendicando la libertà di un percorso da condurre nell’intimo del proprio animo.

There are times when all the world’s asleep

The questions run too deep

For such a simple man

Won’t you please, please tell me what we’ve learned?

I know it sounds absurd

Please tell me who I am.

SCOPRIRSI O ESSERE SCOPERTI?

Negli ultimi anni il mondo intero è stato teatro di numerose rivendicazioni identitarie, movimenti reazionari nei confronti di una società che per molti aspetti sembra essere rimasta all’età della pietra.  Nonostante i dibattiti si concentrassero su aspetti differenti, sono tutti legati da un saldo fil rouge , da uno slogan che risuona nelle orecchie e condensa secoli e secoli di lotte: “a decidere devo essere io”. Ciò per cui si sta realmente combattendo, è quindi la libertà di svelarsi, di scoprirsi, di cambiare o rimanere gli stessi, insomma la possibilità di condurre una ricerca scientifica ed approfondita nell’intimità del proprio cuore senza dover subire dall’esterno paralizzanti pressioni. Sin dalla scuola dell’infanzia viene inculcata nelle menti la categoria dell’ ”errore”, ma che cos’è l’errore? Chi è in grado di definire la norma da cui devia un comportamento “sbagliato”? Tralasciando casi di oggettiva problematicità (come la violenza), è sempre più comune rinchiudere in qualche etichetta quei soggetti che sono semplicemente più vivaci degli altri, meno loquaci dei compagni o meno volenterosi dei coetanei. Perché si sente la necessità di trovare un nome anche quando questo non è necessario? In questo modo l’essere umano crescerà marchiato da quella definizione e se non per gli altri, almeno per se stesso sarà sempre colui che in tenera età era “troppo”. Questa educazione “normotipica” ha come risultato l’inevitabile aridità di un soggetto che non solo fa fatica a comprendere gli altri, ma non è neanche in grado di indagare e comprendere se stesso. A sfuggire è proprio l’inconsistenza delle distinzioni nette ai danni delle sfumature di significati adattabili tanto alla “norma” quanto all’ “eccezione”, è la necessità insita in ognuno di crearsi una propria storia libera da condizionamenti esterni. Certamente il troppo storpia, Des Esseintes ne è la prova, ma tra il “tanto e il “poco” non c’è una via di mezzo? Non è possibile vivere nella labilità di un attimo che se da un lato comporta sacrificio, dall’altro permette di costruire un’esistenza sur mesure?

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