Breve definizione di Postmodernismo
Il Postmodernismo è una corrente di pensiero filosofica del tardo XX secolo caratterizzata da spiccato scetticismo e relativismo, nonché da un acuto interesse per il ruolo dell’ideologia in quanto mantenitrice e assertrice di potere politico ed economico.
Molte delle dottrine al giorno d’oggi associabili con il Postmodernismo possono essere genericamente accomunate dal netto rifiuto delle principali opinioni della filosofia illuminista del XVIII secolo. Ad esempio, secondo gli Illuministi, era possibile creare una realtà oggettiva la cui esistenza e le cui proprietà erano indipendenti dal raziocinio e dalla logica umana. Questa realtà è invece, per i postmoderni, un costrutto concettuale, un mero artefatto della pratica e del linguaggio scientifico. I giudizi descrittivi e dimostrativi di scienziati e storici possono, in accordo con i principi della rigida algebra booleana, essere veri o falsi. La posizione postmoderna, derivante dal rifiuto di una realtà naturale oggettiva, si può elegantemente tradurre nell’impossibilità di formulare una Verità assoluta. Sulla scia dell’Illuminismo e del Positivismo, inoltre, è opinione comune che, con strumenti sempre più precisi fornitici dall’avanzamento delle scienze e della tecnologia, gli esseri umani possano essere in grado di cambiare se stessi e le loro società per il meglio. I postmoderni, al contrario, supportano la tesi che uno sviluppo incontrollato (o sostenuto dalle mani sbagliate) possa portare allo sviluppo di tecnologie anche per genocidi come avvenuto nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Teoria della relatività e meccanica quantistica: la crisi della verità assoluta
Come precedentemente descritto, molte delle caratteristiche dottrine del Postmodernismo costituiscono o implicano alcune forme di relativismo etico, epistemologico o metafisico. Alla base di tale pensiero vi è la negazione che ci siano aspetti della nostra vita effettivamente oggettivi. La realtà, la conoscenza e i valori (che per primo Nietzsche aveva dimostrato che non fossero assoluti nell’opera Genealogia della morale, intendendo per metodo genealogico proprio un’indagine che dimostrasse che non esistessero realtà stabili e immutabili) sono costruiti sulla base dei discorsi umani e con essi possono facilmente variare. Quest’affermazione trova sostegno ad esempio con la nascita dell’alchimia dal momento che si credeva che fosse possibile la trasmutazione dei materiali. In realtà, nonostante all’epoca sembrasse un’utopia degna di malefici e stregoneria, si è avuta effettivamente conferma scientifica di determinati processi nucleari che portano ad una variazione del numero di protoni in un atomo e di conseguenza alla definizione di altre specie chimiche.
La fisica del XX secolo ha completamente rivoluzionato il nostro modo di porci nei confronti della ricerca della Verità assoluta e può essere inquadrata perfettamente nel contesto di un avanzamento scientifico-tecnologico che ha molte implicazioni nella nostra vita quotidiana.
La teoria della relatività ristretta, esposta nel 1905 da Albert Einstein in una serie di pubblicazioni scientifiche, distrugge il concetto classico di spazio e tempo immutabile e quindi oggettivo. Una delle prime conseguenze della relatività è la dimostrazione che due eventi non sono mai simultanei siccome ciascuno si riferisce al proprio sistema di riferimento. È facile intuire questo aspetto adesso sulla base degli esperimenti mentali proposti dai fisici del Novecento: consideriamo di far brillare una mina il cui suono, che viaggia a velocità costante nell’aria, è in grado di propagarsi per chilometri dal punto di detonazione. Una persona che si trova nelle vicinanze lo percepirà quasi istantaneamente. Un altro individuo, a bordo di un treno molto veloce che si allontana dalla zona di deflagrazione, lo percepirà molto dopo, quasi giungendo alla conclusione che si tratti di un evento separato da quello a cui ha assistito il primo soggetto.
Questo relativismo è suffragato anche dalla teoria della meccanica quantistica che addirittura introduce in sistemi fisici fino ad allora considerati deterministici la teoria delle probabilità. Mentre dall’analisi cinematica e dinamica di un corpo secondo le leggi di Newton e i principi del relativismo galileiano, era possibile determinare qualsiasi parametro relativo al moto (quantità di moto, forze agenti sul sistema, posizione, accelerazione, ecc…), adesso, con l’equazione quantistica di Schrodinger (applicabile a tutta la realtà fisica in accordo con la teoria delle onde di materia di De Broglie), non si sa cosa accada al corpo finché non si è completato l’esperimento siccome esso può da un punto di vista probabilistico evolvere in differenti scenari.
Pertanto con la meccanica quantistica si parla di logica a tre valori che soppianta quella classica booleana. I suoi elementi costitutivi sono V (vero), F (falso) e I (indeterminato). Finché l’esperimento non viene completato non è possibile fare previsioni certe sul suo risultato siccome le varie ipotesi si sovrappongono tra loro in un unico stato quantico (principio di sovrapposizione quantica). Terminata l’esperienza empirica, siamo noi attraverso il nostro raziocinio a costringere il sistema fisico a fornirci una conseguenza logica di quanto successo. Di conseguenza la funzione d’onda ψ associata all’apparato sperimentale collassa in un’unica soluzione, probabilmente giungendo agli stessi risultati previsti dalle leggi della dinamica newtoniana.
Le teorie moderne in ambito matematico-fisico, che si spingono fino all’incompletezza della matematica assiomatica con i teoremi di Kurt Gӧdel, dimostrano che l’avanzamento delle scienze e della tecnologia è in perfetto accordo con le teorie postmoderne per le quali è sempre più improbabile trovare un’oggettività in ciò che ci circonda. Il relativismo alla base delle nuove acquisizioni in ambito scientifico deve far riflettere sul ruolo che ha l’uomo nel mondo e del suo rapporto con la scienza stessa, capace quindi di allontanarlo sempre di più dalla definizione del vero fondamento ultimo della realtà.
Il pensiero di Heidegger e Haraway: la tecnologia post-moderna
Nell’opera The question concerning technology, Martin Heidegger delinea un metodo di indagine per la preparazione ad un rapporto “libero” con la tecnologia. Il problema per il filosofo non è tanto l’esistenza della tecnologia o delle forme che essa può assumere nel panorama cross-mediale moderno, ma piuttosto il nostro orientamento nei suoi confronti. Secondo tale prospettiva del problema diviene palese che la nostra risposta ai vari problemi portati dalla tecnologia non possono essere risolti semplicemente rendendola migliore.
Secondo Heidegger esistono dei punti ciechi (blind spots) nel nostro pensiero che ci separano continuamente da un modo più profondo di percepire il mondo e il nostro posto in esso. Nel saggio, il filosofo giunge ad affermare che la tecnologia è un’attività umana destinata ad essere uno strumento per raggiungere uno scopo. La nostra comune conoscenza della tecnologia ha dunque dei punti ciechi che ci impediscono di comprendere più pienamente la nostra relazione con essa. Anche i nostri tentativi di controllare gli strumenti scientifici e tecnologici, in modo tale che essi non finiscano per distruggerci, sono fomentati dalla nostra visione “strumentale” e limitata dell’essenza della tecnologia.
Come già osservato in Essere e tempo, Heidegger proietta il problema della tecnologia nel quadro di un nichilismo occidentale siccome essa ci induce ad avere esperienza delle cose per quello che meramente sono. Le persone e la natura, in quest’ottica materialistica, finiscono per divenire esclusivamente materiale grezzo per delle operazioni tecniche. Tutto ciò che si avvicina a noi viene considerata una sorgente di energia, qualcosa che dobbiamo necessariamente riorganizzare per poterci interagire. Dunque tutti diveniamo mere risorse umane da gestire e sfruttare. Qualsiasi cosa che si presenta da sé come tecnologica perde di conseguenza la sua indipendenza e forma caratteristica. Al contrario, la fenomenologia dell’essere è un metodo che permette agli enti di palesarsi nel loro peculiare modo. Per il filosofo l’essenza della tecnologia diviene un metodo col quale noi incontriamo delle entità, incluse la natura, noi stessi e di conseguenza tutto ciò che ci circonda.
Nella stessa ottica postmoderna della tecnologia si innesta il pensiero di Donna Haraway che ha pubblicato nel 1985 il Manifesto Cyborg, divenuto poi fonte di ispirazione per la teoria culturale femminista.
Il cyborg inteso come ibrido uomo-macchina ha portato ad una ridefinizione della naturalità umana e della sua interazione con il mondo tecnologico.
Secondo il parere dell’autrice, di chiara formazione scientifica ed interdisciplinare nella filosofia e storia delle scienze, l’universo si è sempre basato sulla contrapposizione di coppie di elementi secondo una teoria dualistica che richiama dottrine filosofiche del passato.
Tale contrasto vede sempre il prevalere di un elemento sull’altro, così come è accaduto per l’etnia occidentale su quelle indo-americane nei secoli di selvaggia colonizzazione, per lo sfruttamento degli animali nelle grandi filiere o per i sessi in battaglie per i diritti che risalgono a periodi anteriori all’età vittoriana.
La figura del cyborg diviene il connubio quindi tra l’uomo nella sua naturalezza fisica e il freddo sistema tecnologico che è in grado di fornire, grazie alle sue numerose capacità, un metodo di superamento della differenza di genere. Tale processo tuttavia finisce per distruggere gli ancestrali dualismi tra uomo/donna e naturale/artificiale dal momento che la tecnologia plasma il concetto di corpo portandolo ad essere considerato come un terreno di prova su cui compiere svariate ed inimmaginabili sperimentazioni.
Per Haraway non bisogna spingersi troppo lontano per definire le prime contaminazioni tecnologiche del corpo umano: lenti a contatto, protesi e strumenti come i bypass cardiaci rappresenterebbero i primi passi verso la definizione di un nuovo essere ergonomicamente connesso a sistemi tecnologici che è il cyborg. L’autrice ritiene che la figura di questo automa semi-umano non rappresenti altro che un insieme di ideali di una civiltà più pacifica ed altruista. La sua nuova visione degli esseri umani rifiuta il concetto occidentale di personalità in favore di un mondo costituito da una coscienza collettiva con accesso illimitato alle informazioni disponibili.
L’esperienza letteraria di George Orwell: 1984
La visione Post-moderna della tecnologia ha molti nessi in comune con testi letterari distopici che condividono tutti l’idea che il futuro dell’uomo nelle mani di uno sviluppo tecnologico senza freni possa essere destinato ad un esito fatale. Il termine distopia, coniato nel 1868 da John Stuart Mill, indica una società immaginaria in cui alcune tendenze come quella dello sviluppo scientifico sono percepite in maniera negativa dal momento che se ne scorgono le potenzialità catastrofiche ai livelli più estremi.
Nel filone letterario più sviluppato di tale genere letterario, si riscontra spesso una società gerarchica in cui la propaganda di un regime costringe le persone a pensare che il loro stile di vita sia il migliore possibile. Valori come l’individualità sono completamente banditi poiché contravvengono ad un unificante quanto degradante clima di conformismo generale, teoria molto simile agli scritti della Haraway precedentemente descritti. Per di più, varie agenzie di spionaggio attraverso dei potenti e sofisticati mezzi tecnologici controllano incessantemente il comportamento della popolazione impedendo a quest’ultima di vivere un legame profondo con il mondo naturale.
George Orwell, noto principalmente per il suo capolavoro 1984, è uno dei massimi esponenti del genere distopico del Novecento. A differenza di molti romanzi simili, proiettati in futuri distanti e a noi non familiari, 1984 è abbastanza convincente soprattutto perché molti elementi derivano dalla storia e contribuiscono in maniera radicale a definire l’Oceania del racconto.
Ad esempio, “2+2=5” era uno slogan politico dell’Unione Sovietica per il completamento dei piani quinquennali di industrializzazione in un minor periodo di tempo. Allo stesso modo, la figura mitologia di Goldstein nel romanzo richiama quella di Leon Trotsky, il rivoluzionario leader che Stalin aveva allontanato dal partito e denunciato come traditore della causa bolscevica.
L’aspetto più importante su cui si focalizza il racconto è l’uso della tecnologia nella società gerarchica. Comprendendo che strumenti come i mass-media erano stati fondamentali nella salita al potere di Hitler, Orwell li tramuta nel racconto in insidiosi teleschermi ricchi di propaganda e marce. Attraverso l’uso di queste strumentazioni sofisticate sparse e nascoste per tutta la città dove si svolgono le vicende del protagonista Winston Smith, il Partito governante è in grado di monitorare continuamente i suoi membri. 1984 dimostra che la tecnologia, che è generalmente percepita come uno strumento per fare del bene, può anche facilitare i piani delle menti più malvagie. Lo scrittore si concentra anche sul valore dell’informazione pubblica dimostrando che per il Partito è estremamente facile manipolare le fonti di ricerca continuando a modificare i contenuti di tutti i giornali e le storie per i propri fini. Per permettere che ciò accada più agevolmente, il governo impedisce ai propri cittadini di tener traccia dei propri ricordi su un diario; di conseguenza le persone necessariamente dipendono da ciò che il Partito dice loro. Il concetto di Grande Fratello è divenuto al giorno d’oggi sinonimo di sorveglianza onnipresente, similmente a quanto accaduto con il boom degli smartphones sul mercato internazionale. Varie agenzie governative, tra cui l’FBI, hanno dimostrato in varie occasioni come sia possibile accedere ad un qualsiasi dispositivo elettronico permettendo dunque di attivare i software di registrazione audio e video all’insaputa dell’utente.
La realtà, come si vede, non si discosta molto da quella rappresentata nel romanzo sopracitato.
La verità non è assoluta: il contributo della pedagogia sperimentale di Rosenberg
All’inizio del Novecento nacque, parallelamente alla pedagogia psicologica, quella sperimentale. Uno dei principi fondamentali su cui essa si basa è lo sviluppo nell’individuo, sottoposto ad un intervento pedagogico, del senso civile di empatia e del cambio di prospettiva. La società moderna, con la saturazione dell’informazione veicolata a causa dell’eccessiva crossmedialità, induce a valutare le proprie esperienze quotidiane sempre da un unico punto di vista che viene quindi erroneamente trasmutato in verità assoluta. Il problema di fondo è la mancanza di empatia che non permette agli individui di immedesimarsi nel vissuto anche latente di un’altra persona e di analizzare la questione secondo una mentalità diversa maturata nel contesto di differenti orizzonti culturali.
È necessario quindi maturare un senso di comprensione, accettazione e discussione dell’opinione altrui che, in uno scenario ricco di tensioni anche a livello geopolitico come quello moderno, risulta essere di fondamentale importanza se non urgenza.
Un approccio pedagogico già sviluppato per affrontare tale spinosa questione è quello proposto da Marshall Rosenberg, definito comunicazione non violenta (CNV). Questo processo metacognitivo è nato negli anni ’60 col lavoro che egli ha svolto in collaborazione con diversi gruppi di attivisti per i diritti civili e rappresenta un ottimo metodo per la risoluzione dei conflitti.
Rosenberg individuò tre principi fondamentali per la buona riuscita dell’intervento:
- Auto-empatia, ossia la capacità di prendere consapevolezza della proprio vissuto interiore; questo processo può richiedere l’analisi delle critiche che ci vengono mosse, la valutazione dei nostri stati d’animo e, più criticamente, il rapporto con le cose che ci influenzano;
- Empatia, ossia la capacità di ascoltare gli altri immedesimandosi in loro; ciò consiste essenzialmente nel captare, grazie all’ascolto, tutti i sentimenti, i bisogni e le richieste che ci vengono poste dal nostro interlocutore. Spesso, siccome l’altro non si apre manifestamente con noi, si ritiene necessario sviluppare un forte senso di intuizione per comprendere quali emozioni e necessità il soggetto tenta di nascondere.
- Auto-espressione onesta, ossia la capacità di mostrarsi agli altri per quello che si è, ispirando compassione; questo step si basa sul presupposto che quando si pronuncia un bisogno in seguito ad uno stato d’animo, le persone tendono a pensare di meno che esse siano responsabili delle nostre emozioni.
La Comunicazione Nonviolenta si configura come un metodo per risolvere conflitti che sorgono tra individui o gruppi di persone dovuti principalmente all’uso di un linguaggio coercitivo o manipolativo che ha lo scopo di indurre sentimenti negativi come paura, colpa o vergogna.
L’aspetto più importante del processo è comprendere che non esiste soltanto la nostra personale opinione, ma che è possibile riscontrare differenti punti di vista in relazione al medesimo argomento. L’atteggiamento più comune, che tuttavia blocca quasi istantaneamente il processo empatico di compassione, è quello di fare dei commenti o giudizi moralistici. Questi ultimi infatti implicano spesso di rivolgersi ad altre persone con atteggiamento di superiorità dimostrando, anche senza i dovuti modi dettati dalle virtuali leggi del buon senso civile, il perché dell’erroneità della loro opinione.
Approccio sperimentale pedagogico: sviluppare l’empatia come strumento di risoluzione dei conflitti
Al fine di impostare un percorso di intervento pedagogico per lo sviluppo dell’empatia come strumento di risoluzione dei conflitti, nel quadro dei principi ispiratori della Comunicazione Nonviolenta di Rosenberg, bisogna in primo luogo che il soggetto sappia distinguere un’osservazione (di natura oggettiva, che si limita a registrare un evento) da un giudizio (di natura soggettiva, relativa a chi espone i fatti).
Un esercizio proponibile con una certa facilità di esecuzione pratica è la somministrazione di una serie di enunciati di senso compiuto. L’istruzione per lo svolgimento è sottolineare gli enunciati che ci sembrano delle mere osservazioni. A titolo di esempio, si riportano rispettivamente un giudizio e un’osservazione oggettiva:
- Spesso Mattia non chiede il mio parere prima di un compito in classe.
- Antonio mi ha detto che la domenica mangia dai nonni paterni.
La prima frase è un giudizio siccome non ci si limita a fornire un resoconto dell’avvenimento (ossia che il nostro compagno di classe non chiede il nostro parere), ma si sottolinea, dal punto di vista di chi parla, la ripetitività con cui tale fenomeno si verifica (“spesso”, quasi ad indicare che Mattia ritenga che andiamo male a scuola). La seconda frase, al contrario, si limita a riportare ciò che Antonio ha riferito.
Lo scopo di questo esercizio è quello di dimostrare come i giudizi moralistici (par.5) si insinuino anche inconsciamente nel nostro parlare quotidiano. Lo studente, riflettendo sulla differenza tra osservazione e giudizio, baderà alla terminologia utilizzata nelle frasi proposte e ne apprenderà le caratteristiche per poterle poi applicare in un contesto reale ispirato alla Comunicazione Nonviolenta.
Il secondo esercizio, fondato sulla distinzione tra osservazione e giudizio, consiste in un dibattito limitato a coppie di persone. Seguendo i tre principi fondamentali della CNV, ciascuna persona a turno dovrà svolgere le seguenti azioni:
- Esprimere un’osservazione oggettiva sulla persona che siede di fronte, evitando di dare dei giudizi personali, similmente all’esercizio 1.
- Dichiarare il proprio stato di animo. Riflettere su quest’ultimo identificando il bisogno che provoca la nostra sensazione e chiedere all’interlocutore cosa avverte e quali fattori hanno determinato la sua emozione.
- Chiedere chiaramente ciò che si desidera nel momento in cui si è compreso il proprio stato di animo in modo tale da mettere l’altro nelle condizioni di poter soddisfare eventualmente il proprio bisogno. Successivamente, invertire i ruoli.
Tali scambi dialogici consentono alle due persone di creare un feeling empatico che permetta loro di risolvere i dissidi interiori in un clima positivo e cooperativo, dove nessuno giudica l’altro. L’interazione verbale a coppie gioca un ruolo fondamentale nel processo di acquisizione dell’empatia dal momento che rappresenta l’elemento base per apprendere le competenze nell’approccio empatico-dialogico interpersonale su larga scala.
L’ultimo step è applicare tale metodo, basato sulle competenze maturate nelle precedenti due esperienze, al fine di risolvere una problematica che non ha a che fare con i nostri sentimenti personali, ma con una tematica generale su cui, in base ai vissuti personali, si possono avere delle divergenze d’opinione. Il compito di ciascun soggetto è quello di interagire con tutti gli altri partecipanti all’esperienza, desumere i loro stati d’animo e i loro bisogni in merito alla questione, cercando di trovare un compromesso risolutivo che possa soddisfare il numero massimo di esigenze.
Roberto Parisi
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