La violenza è un tema molto profondo, affascinante e con un fondo oscuro. Dare un senso alla violenza, soprattutto quella fisica, è un affare molto complesso.
Da sempre filosofi, poeti e artisti hanno tentato appunto di dare una risposta a questa domanda. In questo articolo guarderemo alla risposta che ne danno Pierre Clastres e De Andrè.
La violenza nell’antropologia e nella storia
Come dicevo da sempre l’uomo, con la filosofia e la poesia ha tentato di dare un senso alla violenza. Pratica che appare barbara e brutale, eppure è praticamente vecchia quanto è vecchio l’uomo. Nelle società antiche, di diecimila e più anni fa, gli utensili avevano il doppio ruolo di produrre da mangiare (ausilio dell’uomo nell’agricoltura) e di fare la guerra e di uccidere i propri nemici.
Durante il corso della storia non troviamo tante differenze, e la violenza, così come la guerra, rimarranno delle tristi costanti. Durante il medioevo, ad esempio, quella della faida era istituzione sempre presente. Era quindi più che naturale uccidere un membro della famiglia nemica, se aveva fatto un torto alla nostra. Lo stato moderno ha dovuto concentrare molti dei suoi sforzi per cercare di eliminare (o quanto meno contenere e sublimare nell’istituzione giuridica) quella che era una vera e propria istituzione.
Nel mondo di oggi rischia di esserci più ipocrisia che etica sulla violenza. La violenza appare legittimata a volte e assolutamente condannata in altre. Quella presente nella nostra società (bullismo, tortura in alcuni interrogatori, quella simbolica, in famiglia) a volte viene criticata ma molto spesso viene fatta passare sotto un’aura di necessità, specialmente dalle ali conservatrici della politica. Che poi sono invece pronte a puntare il dito sulla violenza nelle società indigene.
La violenza come potere che si scrive sul corpo
Appare sin da subito molto chiaro come potere e violenza sono due elementi strettamente intricati l’uno con l’altro. In alcuni casi è eclatante, prendiamo ad esempio le dittature e i regimi antichi, dove la violenza veniva utilizzata più che ampiamente per mantenere il proprio potere. Nella nostra società invece il discorso appare più complesso.
Il potere si scrive sul corpo, questo è il succo di molte riflessioni svolte dai più disparati intellettuali, da Foucault a Bourdieu. Un autore che ha fatto delle riflessioni sistematiche su questo è Clastres. Rigirando la proposizione, il corpo degli individui, la carne, è uno tra i luoghi preferiti del potere per scrivere ed iscriversi. Tanto è che Kafka nella sua colonia penale racconta di un generale che vuole punire un insubordinatore per non aver rispettato la legge. La macchina infernale della tortura punisce scrivendo il crimine che l’individuo ha commesso sulla sua nuda carne.
Il generale però non riesce a mandare il suo imputato nella macchina, e finisce per andarci lui stesso. Il potere infatti, come ci dice Foucault, lungi dall’essere un oggetto che alcuni individui hanno per esercitarlo e goderne nei confronti degli altri, è un meccanismo che si crea soltanto nel rapporto tra due individui, con i loro corpi.
La macchina del potere e i suoi sottomessi
Il potere è una grande macchina, una macina che gira, con i suoi ingranaggi, i suoi punti di forza e di debolezza e i suoi punti di applicazione. La macchina più che avere un macchinista esterno che la guida e la controlla, si estrinseca e si manifesta tra gli individui che ne fanno parte.
Così che, come ci racconta anche Foucault nel suo “Sorvegliare e punire” carceriere e detenuti sono molto più vicini di come sembra a prima vista. Il carceriere è inchiodato sotto lo stesso tetto che copre la testa e il corpo dei condannati.
Così che, almeno in parte, si può comprendere la violenza e i suoi rapporti con il potere. Non possiamo quindi che ricordare De Andrè e le sue canzoni, dove i temi della violenza e del potere sono sempre presenti. Cercando finalmente, come ci dice, di fare un gesto molto umano e capire il senso della violenza.