La figura del filosofo e il suo ruolo, sin dai tempi di quello che viene considerato per convenzione “il primo filosofo”, Talete, si distinguono nettamente da tutti gli altri ruoli professionali, poiché il filosofo, nella sua accezione originaria, “non era un lavoratore” (che produce ricchezza): la filosofia non era un mestiere, ma una forma d’esistenza, un modo d’essere nel mondo. Talete, almeno secondo la testimonianza platonica, osservava gli astri con la testa rivolta all’insù, e non si accorse di un pozzo dinanzi a sé, suscitando le risa di una serva. Il filosofo come colui che specula e non si accorge di ciò che capita è la prima opinione che abbiamo della figura del Sapiente. Tutto immerso nel pensiero, ma poco attento alla quotidianità e alla concretezza della vita. Pitagora utilizzò una bella immagine per descrivere l’esistenza teoretica: egli paragonava la vita alle feste di Olimpia, dove alcuni si recavano per affari, altri per gareggiare, altri per divertirsi, e infine, alcuni, soltanto per vedere ciò che accadeva con apparente distacco. Questi ultimi, spettatori disinteressati, sono i filosofi. Il filosofo cioè non si mescola con gli affaristi né con coloro che vivono la vita come semplice piacere, non è preoccupato dagli affanni di costoro, presi dagli interessi materiali: il filosofo ha la capacità e la possibilità di “tirarsi fuori”. Eppure, oggi come ieri la domanda sulla correttezza e l’utilità della figura di un filosofo dedito alla sola speculazione teoretica fa discutere: a che serve una filosofia che non sappia dire nulla di noi, della nostra società e del nostro quotidiano?
Filosofo non compreso, filosofo in fuga
Vissuto probabilmente nel XII secolo d.C. a Wadi Ash, un paesino spagnolo situato a circa sessanta chilometri da Granata, Ibn Tufayl fu il secondo più importante filosofo di religione mussulmana in Occidente, dopo Ibn Bajja. Allievo di Avempace, Ibn Tufayl è autore di un’importante romanzo filosofico intitolato “Il Figlio vivente del Vigilante”. In esso, egli immagina un bambino (di nome Havy ibn Yaqzan) che vive in un’isola dove si nasce senza padre e senza madre; egli impara a conoscere gli animali e la natura, a costruirsi strumenti e a scoprire via via l’esistenza dell’anima e di un Dio creatore, buono e sapiente, alla cui contemplazione egli giunge progressivamente. Su di un’isola vicina un gruppo di persone, tra le quali il re Salaman, praticavano invece una religione “che forniva alla gente simboli, non verità”. Absal, un amico di Salaman, osservava i rituali di questa religione, ma, al contrario degli altri che si attenevano al suo significato letterale, egli indagò in profondità sulle sue verità nascoste. Incline per natura alla solitudine Absal si trasferì sull’isola su cui viveva Havy. Quando lo incontrò gli insegnò il linguaggio umano indicandogli gli oggetti e pronunciando le parole corrispondenti. Con l’acquisizione del linguaggio, Havy fu in grado di spiegare ad Absal il suo progresso nella conoscenza. Non riusciva ancora a capire però per quale motivo la religione di Absal si servisse di simboli e mostrasse indulgenza riguardo alle cose materiali. Così decise di visitare l’isola vicina al fine di spiegare alla popolazione la verità pura. Absal, che conosceva la natura della gente, lo accompagnò riluttante. Quando si rivolse al gruppo di persone più intelligenti dell’isola, queste gli portarono rispetto fino a quando non provò ad andare oltre il significato letterale delle Scritture. A quel punto cominciarono ad evitarlo: Havy comprese allora che simili persone non erano in grado di cogliere direttamente la verità e che la loro religione “simbolica e superficiale” era necessaria per la sicurezza della società in cui vivevano: un tentativo di illuminare quegli individui incapaci di attingere la visione della verità pura avrebbe solamente sortito l’effetto di destabilizzarli. Havy e Absal fecero quindi ritorno sull’isola deserta per praticare il loro misticismo nella solitudine: rappresentano nel romanzo il modello del sapiente che, non compreso da una società “stupida e distratta”, decide di andarsene. Un comportamento antitetico rispetto a Socrate, modello filosofico per eccellenza, sempre presente nel porre domande disturbanti forzando fratture critiche nel tessuto sociale e nei singoli individui. Un atteggiamento di ricerca e di sete di verità che portò “l’uomo più giusto della città” ad essere condannato a morte proprio da quest’ultima. Il dibattito sulla posizione e il ruolo del filosofo in una società “stupida” o ingiusta ha spesso trovato un’immagine felice nella metafora dell’albero. L’albero, in un ambiente “inquinato”, è giusto che si erga impavido, o deve essere abbattuto?
La filosofia serve a rattristare
Il filosofo, si sa, è tafano e torpedine: un fastidioso insetto che pungola l’uomo, spingendolo a riflettere, gettandolo nello sconforto, poiché mistifica, e tutto sottopone al dubbio e alla ricerca. Gilles Deleuze in “Nietzsche e la filosofia” scriveva: “La filosofia serve a rattristare: una filosofia che non rattristi, che non riesca a contrariare nessuno, che non sia in grado di arrecare alcun danno alla stupidità e di smascherare lo scandalo, non è filosofia”. Secondo il filosofo francese Alain Badiou, poi, ciò che interessa al filosofo non è tanto quel che è, ma quel che viene: la filosofia si troverà dunque a dover rivolgere uno sguardo alla tecnologia e alla sua evoluzione, ai possibili scenari che stanno emergendo, all’immagine del mondo futuro. Sempre Deleuze, in una conferenza che costituì il suo ultimo intervento pubblico prima del suicidio, ha detto: “Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo divenendo, cioè l’Altro, il nostro divenir-altro”. Servono, dunque, nuovi concetti, che come direbbe Deleuze vanno ‘fabbricati’ anche riciclando quelli vecchi, ma con la consapevolezza che debbono servire a smontare la realtà. Una filosofia che non sia né ottimista né pessimista, ma che insegni il disincanto consapevole, e l’ironia nei confronti di ciò che è (per dirla con Matrix, fornire pillole rosse in gran quantità). Un’ironia che non equivale solo alla socratica messa in ridicolo del presunto sapere, ma anche alla frantumazione di una (presunta) totalità, che altrimenti schiaccia e opprime la nostra mente, togliendole la libertà di pensare l’Altro, il nostro divenire-altro. Una filosofia che dovrà certo rigenerarsi e rivedere il proprio ruolo. Non più saggezza, non più sapienza, ma guida per il domani. Husserl definiva il filosofo “funzionario dell’Umanità”: una filosofia, dunque, che non potrà più permettersi di fuggire né di chiudersi nelle sue belle stanze dorate.
Tommaso Ropelato