Esposti, bombardati, schiavi dei social? È quello che sentiamo sempre. Ma quanti saprebbero spiegare perché?
Capita spesso di sentire che i social “ci danno una visione parziale”, della vita degli altri, della politica, di qualsiasi cosa. Ormai questo cliché è dato per scontato, ma esiste una teoria del cinema che potrebbe spiegarlo meglio.
L’OCULARIZZAZIONE
“Mi consiglio con don Raffae’
Mi spiega che penso e bevimm’ò cafè”
-Fabrizio de André, Don Raffaè
Ogni video inteso come prodotto multimediale ha una dimensione narratologica. Questo significa che, mentre mostra qualcosa, “narra” una storia. Ogni storia ha un narratore, e quindi il punto di vista (POV) di qualcuno. In narratologia (o antologia, quando si studia a scuola) questo prende il nome, coniato dal famoso studioso Genette, di focalizzazione. Memorie scolastiche ci dicono che questa è distinta in focalizzazione zero, interna ed esterna. La focalizzazione zero è il cosiddetto “narratore onnisciente”, cioè un caso in cui il narratore ne sa più del personaggio di cui parla, o di qualsiasi altro personaggio, e quindi si pone “in alto”. La focalizzazione interna è quando il narratore “ne sa quanto un personaggio” di cui prende il punto di vista, quella esterna è quando “ne sa meno del personaggio”. Viene da se che il secondo e il terzo caso sono visioni parziali. Per spiegare questo concetto altrimenti confusionario, ha avuto grande fortuna la metafora della macchina da presa. E infatti la macchina da presa è un punto di vista a tutti gli effetti. Tuttavia il cinema è molto diverso perché entra in gioco l’immagine, ed è per questo che lo studioso di media François Jost ha proposto di parlare di “ocularizzazione”. Praticamente la versione “cinematografica” della famosa teoria di Genette, l’ocularizzazione è il rapporto tra la macchina da presa e ciò che il personaggio vede. Mentre la focalizzazione si chiede “chi parla?”, l’ocularizzazione si chiede “chi vede?”. Quando guardiamo un video, qualcuno ci sta prestando i suoi occhi, il suo punto di vista. C’è un problema che si pone: l’impossibilità del narratore onnisciente, o meglio, del narratore onnisciente che intendiamo nella letteratura. Mentre con il linguaggio è facile dire qualcosa come “X oggi è turbato. Forse è per quella cosa successa ieri. Ma Y non poteva saperlo e pensava fosse arrabbiato con lei” questo è impossibile in una comunicazione solo visiva. Questo anello mancante sconvolge il nostro rapporto col messaggio di qualsiasi video.
LA VISIONE PARZIALE
Niente da togliere alla grandezza dell’immagine, ma il linguaggio umano è la forma più articolata di espressione che abbiamo. Perciò potrebbe essere utile descrivere con parole quello che vediamo nei video. Un capo di stato musulmano che si rifiuta di stringere la mano a qualche premier europea donna. Il motivo è religioso, ed è questione di rispetto anche alle donne nel non toccarle. Si può essere d’accordo o meno, per carità. Ma queste sono parole. Noi abbiamo davanti un video, quindi interpretiamo quello che vediamo, cioè un rifiuto, con le conoscenze che abbiamo. In un mare vasto come l’internet non possiamo avere conoscenze su tutto, e allora interpretiamo la cosa come una mancanza di rispetto. Un video ambientato in India fa vedere del cibo che viene preparato in condizioni igieniche pietose. Mostrare un’immagine è dare un’informazione. Nessuna voce narrante interviene con un’indicazione di luogo “Qui, solo qui, in questo luogo succede questo, e per questi motivi”, quindi si istaura un fenomeno che Michel Colin spiegherebbe come “se io vedo che X è P, allora X è P”. E gli esempi sono infiniti.
IL MONTAGGIO- L’EFFETTO KULE ŠOV
Il montaggio è un caso ancora più importante, perché anche la successione di immagini può tagliare a piacimento i fatti e cambiare la nostra interpretazione. Nel 1917, l’avanguardista Kulešov spiegava l’effetto che avrebbe poi preso il suo nome. In un montaggio, l’interpretazione dell’immagine precedente è legata alla successiva. Prendendo un primo piano di un uomo, lo fece seguire prima da un piatto di minestra, poi da una bara aperta e poi da una bambina che gioca. E la stessa identica immagine dell’uomo, ripetuta tre volte, con la stessa espressione, sembrò avere tre significati diversi. Facciamo sempre un esempio: una donna dice ad un intervistatore che “le donne non hanno bisogno di un uomo”, ovviamente intendendo che la realizzazione dei propri sogni e delle proprie aspettative non passa per nessuno se non per sé stessi e non sempre si desidera una relazione sentimentale. L’immagine stacca e compaiono una serie di uomini intenti in lavori di forza: muratori, costruttori, taglialegna. Cosa c’entra? Quando manca la lingua, si perde la complessità del pensiero, e tendiamo a pensare quello che ha pensato qualcuno a caso. Senza una spiegazione a parole, è perfettamente fuorviante.
USCIRE DALL’ODIO
Ma il linguaggio invece è infallibile e sempre completo? Certo che no. Anche l’autore può dirci solo quello che vuole lui. Non ci vuole molto a dire “Musulmano rifiuta di stringere la mano alla premier” oppure “In India le condizioni igieniche sono scarse”. Non a caso Jost, nel suo studio “Médias: sortire de la haine?” parla di tutte le forme di media che incitano all’odio. E poi è importante specificare che anche l’immagine ha un modo di comunicare tutto suo. Ad esempio, l’immaginare può comunicare tante cose insieme mentre le frasi devono essere in successione. Ma in una situazione come quella dei social è l’esposizione che rende questo più un difetto che un pregio. E l’interpretazione ne risente. Come dice anche Jost oggi si preferisce l’immagine al testo. Neanche quelli che si rifiutano di informarsi- perché è una tendenza che esiste- sono salvi dall’esposizione.