La concezione del carcere e del suo ruolo nella società varia a seconda delle diverse civiltà ed epoche storiche: confronto tra la ‘giustizia riparativa’ di Ceretti, e ‘Il Catilina’ di Sallustio.
Nonostante il mondo romano abbia notevoli punti in comune con la nostra società, numerose sono anche le differenze, e tra queste, per l’appunto, troviamo la concezione del ‘criminale’ e del ruolo del carcere all’interno dello Stato. Daremo la parola ad Adolfo Ceretti, criminologo di fama mondiale, e a Sallustio, storiografo latino dell’età di Cesare che, con particolare enfasi, si impegnò a ritrarre il frutto peggiore di tutto il male presente a Roma: Catilina.
La giustizia che ripara
Adolfo Ceretti, nato a Milano nel Novembre del 1955, dopo la maturità classica, si laurea in Giurisprudenza presso l’università di Milano, con una tesi in Criminologia, specializzandosi, in seguito, in Criminologia Clinica. Oltre ad essere un professore ordinario all’università Bicocca di Milano, e visiting professor all’università federale di Rio de Janeiro, è anche un criminologo di fama mondiale: è a lui che dobbiamo l’introduzione in Italia dell’idea di giustizia riparativa. Nel suo libro “Il diavolo mi accarezza i capelli: memorie di un criminologo”, edito da Il Saggiatore e pubblicato il 31/01/2020, parla della propria esperienza umana ed intellettuale, dando una definizione a questo tipo di giustizia in grado di riparare, intendendola come un un leggere il reato non secondo le azioni commesse (cosa che già fa la giustizia ordinaria), bensì secondo le persone che le hanno commesse e subite. In questo modo, l’analisi si sposta dal piano oggettivo, cioè dell’oggetto, a quello del soggetto, mettendo in primo piano non l’atto in sé, ma la possibilità, tramite un difficile lavoro di mediazione, sempre sostenuto dalla legge, capace di offrire a vittime e colpevoli un cammino che porti ad una lettura differente delle proprie azioni. Si tratta, dunque, di una giustizia che non assolve, non condanna e non giudica, ma di una che offre un altro punto di vista, che lascia aperto uno spiraglio, che, di certo, non si arroga la capacità di saper ‘rifare’ un uomo daccapo, ma che almeno tenta di dare una speranza, come a dire: “Non è finita qua, sei anche quello che hai fatto, ma non solo”.
Il carcere a Roma
Per quanto riguarda il mondo latino, invece, la storia è un po’ diversa; ma non staremo a scendere nei dettagli specifici del diritto romano, con il rischio di impelagarci in tecnicismi che non competono a questo articolo. A Roma non c’era la prigione, almeno non come la intendiamo noi, nel senso che le possibili pene a seguito di una condanna erano l’ammenda, l’esilio, o la condanna a morte: in carcere ci si andava in attesa della morte, che generalmente avveniva per strangolamento. A meno che non ci si focalizzi in modo particolarmente specifico sull’argomento, le notizie che abbiamo circa le condanne e i criminali del mondo romano, riguardano i grandi personaggi storici, spesso allontanati o eliminati dalla scena politica, con processi orientati, o indetti in particolari circostanze, magari a seguito di discordanze tra la classe dirigente. Sarebbe storicamente sbagliato dire che “tutti i processi nel mondo romano erano orchestrati e falsi”, e non avrebbe alcun senso sostenere una tesi del genere; ciò che vorrei far notare, però, è che questa dimensione della “colpa”, del tradimento nei confronti dei valori e dei costumi antichi, veniva spesso tirata in ballo, dipingendo gli accusati come mostri, le cui azioni erano guidate dal malcostume e dalle pessime abitudine (la famosa accusa di Probrum). Con questo tipo di impostazione credo che si possa essere d’accordo sul fatto che, una possibile o presunta modificazione dell’indole del colpevole a seguito di un percorso riabilitativo, sia da escludersi.
De Catilinae Coniuratione
Tra gli avvenimenti Memoria digna, Gaio Sallustio Crispo, annovera la terribile vicenda avvenuta tra il 6 e il 7 Novembre del 63 a. C., vale a dire il tentativo di congiura da parte di Lucio Sergio Catilina, ai danni dell’allora console, Marco Tullio Cicerone. Si tratta di una monografia in 61 capitoli, attraverso cui Sallustio descrive la decadenza della Res Publica, tracciando un filo che parte dalla distruzione di Cartagine e arriva, seguendo il suo corso all’insegna di un deterioramento irreversibile, fino al frutto estremo e più velenoso, un fenomeno eccezionale e patologico: Catilina. Questo personaggio, anzi, IL personaggio, viene descritto sin dall’inizio, mediante un ritratto particolareggiato e crudo, che lo inchioda nella sua parte di “cattivo”, senza possibilità di ammenda o di miglioramento. In realtà, Catilina, non può neanche peggiorare: “Ingenio malo pravoque”. Ci è nato, è fatto così, ce l’ha nel sangue (e per fortuna che Sallustio non era a conoscenza del gene MAO-A, altrimenti chissà cos’altro avrebbe aggiunto!). Viene allora da chiedersi come, in una società che cerca il capro espiatorio, e che non giudica solo le azioni, ma anche e soprattutto l’indole di un uomo, possa esistere una giustizia che volga lo sguardo ad un cammino di cambiamento e di accettazione. Poi, per carità, la congiura c’è stata e, tendenzialmente, l’obiettivo dei congiurati è quello di ‘fare la festa’ alla vittima di turno, azione tutt’altro che nobile e legale. Però, si ha come la sensazione che il principio del καλòς καὶ ἀγαθός greco, venga a ribaltarsi, come era già successo a suo tempo, per esempio, con la figura di Tersite nell’Odissea: il cattivo si vede, si riconosce, ce l’ha dentro quel male che lo sfigura e, INEVITABILMENTE, lo porta a fare quel che farà. Appare come una sorta di semplificazione sociale, di appiattimento, come se davvero la realtà fosse una favola di buoni e cattivi, come se il male si vedesse, e non si potesse fare niente per, non tanto impedirlo, quanto correggerlo. Ma, dopotutto, fa più comodo credere che il male sia compiuto solo dai cattivi, e che i buoni, restino tali per sempre; basterà convincersi di stare con i buoni, e la notte, la coscienza, sarà molto più leggera.