Il comportamento umano spiegato con il teatro: viviamo seguendo un copione?

Erving Goffman è sicuramente una tra le personalità più importanti nel panorama sociologico dello scorso secolo. Con una produzione scientifica di indiscutibile valore, ha più volte catturato l’attenzione del pubblico studioso grazie alle sue brillanti metafore, ivi inclusa quella che andremo personalmente a prendere in considerazione: l’approccio drammaturgico nello studio della vita quotidiana.

Nel corso dei secoli, è assai improbabile che sia esistito uno scienziato specializzato in qualsivoglia disciplina umanistica che non abbia fatto i conti con uno degli aspetti più affascinanti dell’intera branca scientifica: il misterioso filo conduttore tra uomo e teatro.

Il controverso percorso etimologico del termine stesso “persona” (dal greco, maschera teatrale), gli studi psicologici messi a punto da Stanislavskij, la drammaturgia di Goffman. Sono semplici metafore, o tra uomo e teatro esiste davvero una specie di intima affinità?

Solide basi scientifiche

E’ bene innanzitutto citare un altro scienziato sociale, lo stesso da cui proprio Goffman prese le mosse agli albori della sua opera. Negli scritti di George Herbert Mead, uno degli illustri padri fondatori della psicologia sociale, vi è una ricca analisi riguardo lo sviluppo della capacità riflessiva del , il quale, secondo Mead, nasce e cresce nei bambini durante la fase del gioco, nel momento in cui vengono assimilate delle regole che il piccolo impara a rispettare, mettendosi al posto degli altri. Con lo sviluppo di un altro generalizzato (ruolo assunto da individui come risultato del completo sviluppo del sé) tutti noi siamo in grado di valutare le nostre stesse azioni, come se fossimo estranei.

Sempre secondo Mead, all’interno del esisterebbe un vero e proprio conflitto, quello tra Io, ossia la risposta naturale ed immediata dell’organismo al comportamento altrui, e Me, ossia tutti quei comportamenti dell’altro da noi assimilati.

E’ proprio a partire da questo eterno conflitto che Goffman partorisce la sua teoria dell’approccio drammaturgico. Gli individui infatti, secondo il noto sociologo contemporaneo, sarebbero disposti a gestire questa tensione recitando per il proprio pubblico sociale, sottintendendo dunque che il non appartenga solo agli attori, ma è frutto dell’interazione che essi hanno continuamente con il loro pubblico.

Le tecniche

A tal proposito, Goffman parla di una reale gestione delle impressioni, ossia un insieme di tecniche specifiche utilizzate dagli attori al fine di essere definiti dal pubblico nel modo in cui essi stessi desiderano.

Tra le più importanti, possiamo sicuramente annoverare quella che il sociologo definisce autodisciplina drammaturgica, ossia il costante senso di regolamentazione interiorizzato dagli individui che ne definisce il modus operandi. Ciò è in primo luogo indispensabile affinché sia raggiunta la giusta distanza tra attore e pubblico (similmente a come avviene nel teatro) di modo che il pubblico riesca a definire chiaramente il personaggio interpretato, anche facendo ricorso a schemi interpretativi precodificati.

Goffman si mostra particolarmente interessato a studiare anche un singolare comportamento da parte del pubblico che, sempre secondo questa tesi, il più delle volte sarebbe interessato ad agire preservando lo spettacolo stesso, chiudendo un occhio sulle incongruenze al fine di portare a termine la rappresentazione.

Infine, uno dei concetti più intuitivi espressi in tale teoria è sicuramente quello di mistificazione, l’assoluto interesse posto dall’attore nel creare una distanza tale tra le proprie azioni ed il pubblico, in modo tale che queste assumano un’aura “mistica” e la rappresentazione sia così resa indimenticabile. Così ad esempio, un professore universitario può decidere di voler tenere nascosti tutti gli errori fatti durante la preparazione della lezione, di aver trascurato altri impegni importanti, un politico può dover nascondere il lavoro sporco necessario al raggiungimento degli obiettivi politici, un padre di famiglia può voler nascondere le angherie subite a lavoro per far felice la sua famiglia. Tutto ciò, spiega Goffman, al fine di evitare che la rappresentazione venga in qualche modo sminuito e anzi, venga esaltata dal pubblico.

Si va in scena

Prospettive interessantissime, a cui Goffman regala in più anche una corretta ubicazione.

Nella spiegazione del concetto di palcoscenico, l’americano ci spiega come questo sia parte integrante della “performance” ed operare in modo quanto più fisso possibile, tutto per una immediata interpretazione dei ruoli da parte del pubblico.

Goffman distingue così il palcoscenico in due importanti variabili. Una è sicuramente lo scenario, l’insieme delle componenti che caratterizzano il contesto fisico che ospita la rappresentazione. L’altra, non meno importante, è il fronte personale. Anche questo aspetto è importante che sia diviso equamente in due parti distinte, l’apparenza (il corredo materiale dell’attore, fondamentali per spiegare il suo status al pubblico) e il modo di fare (letteralmente, l’espressione che informa il pubblico circa il ruolo assunto).

A questo proposito, Goffman si dimostra anche un brillante teorico del conflitto. Con il suo concetto di stigma, egli spiega in modo originale come gli individui mostrino disagio nel momento in cui lo scarto tra la loro identità sociale potenziale (e quindi non sviluppata) e quella reale cozzino tra loro, indipendentemente dal fatto che essi ne siano a conoscenza. In questo modo, ad esempio, un laureato in filosofia costretto a lavorare dietro un registratore di cassa al supermercato si mostra frustrato a lavoro, poiché, in virtù delle loro potenzialità, hanno inconsciamente tutto l’interesse di mostrarsi quanto più distanti possibile dalla loro reale mansione, causa del disagio. Così, gli attori tengono a far presente al pubblico che il ruolo assegnatogli non li rappresenta, prendendo così una certa distanza di ruolo, volta a sottolineare tale incongruenza.

Il retroscena

Grande importanza, come abbiamo visto, viene data anche allo studio di tutte quelle pratiche che l’attore tiene nascoste al pubblico, in modo tale che la sua rappresentazione non ne venga in alcun modo sminuita.

Il retroscena è quindi quel luogo immediatamente adiacente al palcoscenico, ma accuratamente nascosto agli occhi del pubblico. Qui si materializzano tutte le questioni che sul palco vengono generalmente soppresse. Ad esempio, in un ospedale il retroscena medico potrebbe essere la sala comune di tutto lo staff, generalmente chiusa ai pazienti.

Quello esposto sopra, comunque, non è che un sunto dell’immenso lavoro di teorizzazione proposto da Goffman, la cui idea di società costantemente impegnata in una recita sociale che tranquillizza ed aiuta le persone a vivere serenamente la propria vita quotidiana ha ancora oggi un innegabile fascino. Ancora una volta, infine, ci viene dato lo spunto di spingerci sempre più a fondo nel “retroscena” della mente umana, tecnica che potremmo dire fondamentale in più di una disciplina, anche ma in particolar modo nella storia dell’arte e politica.