I migranti del campo Roja di Ventimiglia
La tratta dei migranti è argomento di dibattito oggi più che mai, dopo gli avvenimenti che li vedono come protagonisti delle tragiche odissee di barconi quali l’Acquarius e, molto più recentemente, della nave Diciotti. Mentre il governo porta avanti una politica di respingimento, in Italia sono ancora presenti campi che si occupano dell’accoglienza e della reintegrazione di questi ‘Ulisse’ odierni.
La redazione de Il Superuovo ha avuto l’occasione di intervistare una delle volontarie che hanno prestato servizio nel campo profughi più grande d’Italia: il Campo Roja, situato a Ventimiglia, ribattezzata la ‘Lampedusa delle Montagne’. Dall’inizio del 2018 sono passati da questa piccola cittadina, posta al confine con la Francia (vera meta di chi sbarca a Ventimiglia) ben 4.231 migranti. Di questi il 20% era costituito da minori stranieri non accompagnati. Ragazzi e ragazze, bambini e bambine che, da soli, dopo la tratta in mare, tentano di arrivare in Francia. Ma, a causa della chiusura dello stato, sono molto spesso costretti a intraprendere quello che viene definito il ‘Passo della Morte’, ovvero una serie di sentieri di montagna non segnati che vengono percorsi di notte, e che molto spesso hanno portato alla morte di chi tentava di utilizzarli nella completa oscurità.
Sentiamo le parole di Giulia, che ci ha chiesto di non utilizzare il suo vero nome, che questo agosto ha ottenuto il permesso di varcare le porte del campo Roja.
Qual è la prima impressione quanto si entra nel Campo?
“Io sono scoppiata a piangere. A dire il vero ho pianto tutti i giorni mentre mi trovavo là. Forse non era quello che mi aspettavo, emotivamente è stato molto più forte di quello che avrei potuto immaginare. Inizialmente ci hanno fatto fare un primo giro del campo: è molto piccolo. Dicono che sia il campo più grande d’Italia, ma è molto piccolo. Si vede che è tutto molto provvisorio: ci sono questi container adibiti a qualsiasi tipo di attività, ad esempio la scuola. Poi la tenda dove si mangia… Forse proprio ciò che mi ha fatto più stare male è il fatto che sia tutto solo temporaneo.”
Quante persone soggiornano ora al Campo Roja?
“Adesso sono circa 300. I numeri cambiano molto velocemente, perché quello è un punto di passaggio. Arrivano in Sicilia e solo successivamente approdano a Ventimiglia, dove la maggior parte di loro cerca di sorpassare il confine con la Francia prendendo il treno verso Nizza, soprattutto il venerdì, giorno del mercato, in modo da mimetizzarsi con la folla. Loro partono di sera, di notte, e tentano la via per i monti, che loro chiamano il “Passo della Morte”. Le montagne attorno Ventimiglia sono tutte rocciose: salgono per sentieri non segnati, di notte, e molti ci rimettono la vita. Cadono per i dirupi, oppure basta pensare al freddo dell’inverno. Nel caso riuscissero ad arrivare alla frontiera, poi, i francesi li respingono indietro.
Adesso Ventimiglia ha comunque perso molte unità numeriche. Negli anni scorsi al Campo Roja sono arrivati a contare oltre 3.000 persone, mentre ora sono a malapena un decimo.”
Com’era scandita la vostra giornata da volontari quando eravate là?
“Noi non lavoravamo solo al campo ma prestavamo servizio anche ai centri Caritas di Ventimiglia e Bordighera. Ci dividevamo in due gruppi: uno ai centri e uno al campo. Al campo servivamo da mangiare, poi nel frattempo cercavamo di stare con i ragazzi. Perché loro hanno bisogno di questo: di contatto umano, qualcuno che li tratti come pari. Ce l’hanno detto loro questo, direttamente. Banalmente, ci dissero che fino a quel momento non avevano avuto nessuno che fosse andato da loro anche solo per giocare una partita a carte. Ai centri, invece, tentavamo di dare una mano ai volontari: accoglievamo i nuovi migranti spiegando loro i servizi offerti dalla Caritas, servivamo i pasti e pulivamo i locali.”
C’è qualche storia che ti hanno detto che ti senti di poterci raccontare? Nel rispetto della privacy.
“Non storie di persone in particolare, sono state fatte in confidenza e sono molto forti. Però posso parlare del viaggio. Innanzitutto bisogna dire che tutti coloro che abbiamo incontrato erano persone che avevano studiato mentre erano ancora nella propria terra. Molti sono scappati dalla guerra, soprattutto quelli che provengono dall’Africa, altri dalle persecuzioni dei governi. Si possono solo immaginare tutte le torture che questi hanno poi subito durante il tragitto. Partono e approdano qua, ma molti di loro non vogliono stare in Italia: ciò a cui puntano è di andare in Germania, Francia e Inghilterra. Arrivano al confine, ma non hanno documenti. Il fatto è che questi documenti li devono aspettare per mesi e mesi: ci sono ragazzi che sono qua anche da mezzo anno, ma ancora niente.”
Hai sentito parlare del fenomeno del “survival sex” mentre eri a Ventimiglia?[N.d.A: il “survival sex” è quel fenomeno che coinvolge minorenni che si prostituiscono per pagare il passaggio oltre il confine o per avere cibo e un luogo in cui dormire. ]
“Nel Campo Roja non ci sono molte donne, e quelle che ci sono non parlano. Proprio perché erano in poche, e molto spesso incinte o con malattie psichiche, nel campo tentavano di riservare loro e alle famiglie una zona privata. Per quanto riguarda il “survival sex”, non ho sentito specificatamente questo termine. C’erano anche pochissimi bambini nel campo, saranno stati al massimo 3. Un paio di famiglie, una di siriani e una di africani. Quest’ultima aveva un bambino piccolissimo, nato in Italia, per strada.”
Quali sono le zone di provenienza?
“Ho conosciuto ragazzi provenienti dal Pakistan, poi dalla Costa d’avorio, dal Sierra Leone, dal Senegal, una famiglia dalla Siria e una persona dal Gambia.”
Cosa ti aspettavi all’inizio, prima di arrivare?
“Noi eravamo stati ‘preparati psicologicamente’ alla vita nel campo: ci dissero che comunque i migranti non avrebbero voluto stare con noi, dato tutto ciò che avevano passato. Ma in realtà abbiamo avuto modo di parlare con loro, giocare con loro, anche solo passare del tempo con loro. Forse basterebbe una figura amica, qualcuno che dia loro un po’ di calore, che li faccia sentire umani anche in una situazione così inumana.
L’esperienza al campo Roja è stata per me indimenticabile, non solo perché ho conosciuto delle persone stupende, con tanta voglia di fare e piene di gioia, ma anche perché ho potuto vivere in prima persona l’immigrazione in Italia, dando dei volti alle tante storie che leggiamo ogni giorno nei giornali.
Devo ammetterlo, durante il campo più volte mi sono lasciata prendere da un sentimento di impotenza nei confronti dei rifugiati, credendo di non fare abbastanza per loro, ma grazie all’esperienza sono riuscita a rendere la mia sensibilità un punto di forza: ho infatti deciso di impegnarmi di più nei centri di accoglienza della mia zona per l’integrazione dei rifugiati.
Vorrei ringraziare di cuore tutti i rifugiati che ho conosciuto: mi hanno aperto gli occhi e mi hanno insegnato a non guardare l’immigrazione con distacco e diffidenza perché noi, dedicando anche poco tempo, una chiacchiera o un sorriso ad ognuno di loro, possiamo davvero fare la differenza.”
Ringraziamo Giulia per questa splendida testimonianza, ci auguriamo che molti diano il loro contributo per almeno provare ad alleviare il peso di questa tremenda situazione.