Una delle pagine più buie e drammatiche della storia d’Italia raccontata in prima persona da intellettuali che l’hanno vissuta sulla loro pelle. Il risultato rivela a tutti noi il lato umano e più struggente della cosiddetta “Inutile strage”.
La Prima Guerra Mondiale ha cambiato per sempre la fisionomia e la mentalità in tutta Europa, lasciando enormi conseguenze anche nei decenni successivi alla sua fine. Le nuove armi, l’ingresso delle macchine e un nuovo modo di combattere, unito alle pessime condizioni in cui un soldato cercava di sopravvivere, hanno impresso nelle generazioni il terrore e il rifiuto di un massacro di quelle proporzioni. Tra i soldati c’erano anche tanti intellettuali e scrittori, arruolatisi più o meno volontariamente, che ci hanno saputo raccontare il vero volto di quella guerra, l’altra faccia della medaglia della retorica bellica. Dal fango e dal sangue delle trincee sono nate opere immortali, come “Addio alle armi” di Hemingway, “Le feu” di Henry Babusse, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque o le poesie degli “War poets” inglesi. In questa lista, però, vedremo quali sono le più importanti testimonianze della guerra ad opera di scrittori italiani, che ci hanno raccontato come il nostro paese andò a combattere, cosa succedeva nelle trincee del Regio esercito e com’è rimasta quella carneficina nell’immaginario della nazione.
Gabriele D’Annunzio, l’interventismo eroico e le prime contraddizioni
Quando ancora l’Italia era spaccata in due e non sapeva decidersi se entrare in guerra o meno, c’erano alcuni intellettuali che molto più di altri spingevano per l’adesione alla guerra che avrebbe ripulito l’Europa. Su tutti i Futuristi come Filippo Tommaso Marinetti e Giovanni Papini, convinti promotori dell’Interventismo per il loro culto della guerra, dell’azione, del potere della macchina. Ma tra gli Interventisti c’era anche Gabriele D’Annunzio, promotore di iniziative di grande visibilità di uno spirito combattivo che faceva leva sull’Irredentismo italiano e sull’affermazione dell’individuo eroico e virile. Basti pensare che nei mesi appena precedenti all’ingresso in guerra, il poeta pescarese compì un vero tour nelle piazze d’Italia, come una star, pronunciando orazioni e sermoni alla folla in favore di un ingresso in guerra. Non si possono riassumere qui tutte le sue iniziative in favore dell’intervento bellico e nemmeno quelle compiute durante la guerra, perché si rischierebbe di non finire più. Invece qui possiamo menzionare un’opera nella quale, anche per uno spirito così combattivo e ardito come quello di D’Annunzio, si intravvede una prima contraddizione di fondo: il “Notturno“, una prosa del tutto sui generis pubblicata prima nel 1916 e poi nel 1921. Opera scritta durante la convalescenza in seguito ad un incidente aereo, il “Notturno” è un’opera in cui la retorica civile (pur presente) si riduce e la narrazione, frammentaria e quasi lapidaria, diventa intima, sommessa. Si vede, nell’eroico promotore della guerra, un contraddittorio ripiego interiore, vissuto nel lutto per la perdita degli amici Giuseppe Miraglia e Giuseppe Garassini Garbarino; si scorge la presenza e la paura della morte, la rievocazione con spavento delle baionette e dei volti tumefatti dei morti. Il vero volto della guerra si era rivelato anche al più spavaldo degli intellettuali.
“La paura” di De Roberto: un titolo che dice già tutto
Erano bastate poche settimane ai soldati per capire che la guerra, ancorché combattuta per il proprio paese e per i propri fratelli, era più dura di quanto credessero. E accanto all’eroismo pronto al sacrificio si fece largo la paura. Questa è la protagonista di un omonimo racconto molto fortunato di Federico De Roberto, il famoso autore dei “Viceré” e che ha sempre contribuito con le sue opere a raccontare i mutamenti storico-sociali dell’Italia monarchica. Con questo racconto, pubblicato per la prima volta nel 1921, De Roberto porta il lettore direttamente dentro la trincea, una di quelle del fronte italiano in Valgrebbana. Una vicenda verosimile e tragica, pubblicata a pochissimi anni dalla fine del conflitto, quando la memoria di tutto il paese era ancora fresca di tremendi ricordi. Dopo aver descritto sapientemente il luogo e l’ambiente in cui i soldati dovevano cercare di non morire, l’autore tratteggia la fisionomia e la personalità dei soldati e del loro ufficiale, riuscendo persino a dare un’idea di come dovessero essere gli austriaci del fronte opposto, una minaccia sempre presente col fiato sul collo degli italiani. E la paura di essere ammazzati comincia a serpeggiare tra gli uomini, anche tra i veterani delle guerre coloniali in Africa come il soldato Morana. “La paura” è un racconto di ammutinamenti, di preghiere e di un equilibrio precario tra vita e morte, con un finale a sorpresa che però, in trincea, accadeva all’ordine del giorno. Perché quando si vede la morte in faccia e sta lì di fronte ogni minuto, pronta a sparare al minimo passo, è facile che l’eroismo faccia spazio alla paura.
Emilio Lussu e i soldati mandati al macello
La Prima Guerra Mondiale è rimasta famosa, tra le altre cose, perché cambiarono le modalità di combattimento, con l’introduzione di nuove potenti armi e la strenua volontà degli alti comandi di mantenere le posizioni in trincea. La cosiddetta “Guerra di posizione“, però, nonostante le nuove tecnologie belliche come la mitragliatrice, era combattuta con tattiche militari vetuste, come l’assalto frontale. E proprio di assalto frontale era particolarmente specializzato lo Stato Maggiore italiano, che attraverso ufficiali e sottufficiali dava gli ordini di arrembaggio verso le trincee nemiche, ottenendo come risultato grandissime perdite a fronte di un minimo guadagno (quando e se avveniva) di posizioni. Questo scellerato sacrificio di soldati, il trattamento da feccia loro riservato e le pessime condizioni psico-fisiche degli uomini in trincea sono alla base di uno dei più famosi romanzi postbellici della letteratura italiana: “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu. Pubblicato stavolta nel 1937, distante negli anni dai fatti narrati, questo romanzo racconta delle vicende di un distaccamento del Regio esercito, la Brigata Sassari, che ha trascorso un intero anno tra il 1916 e il 1917 sull’altopiano di Asiago tentando di arginare l’offensiva austriaca della Strafexpedition (“Spedizione punitiva“). Attraverso il suo romanzo, Lussu trova la forza di denunciare personaggi come il Generale Leone (pseudonimo di un alto comandante realmente vissuto), artefice di quella tattica distruttiva e deleteria dell’attacco frontale. Quella di Lussu è una denuncia senza polemica, spesso solo con toni ironici, che fa luce su quanto male la guerra sia stata gestita e sul fatto che a rimetterci, come sempre, fossero i soldati, sempre esposti al pericolo. Arrivando persino a concepire, grazie al ribelle Tenente Ottolenghi, che i veri nemici fossero proprio i loro comandanti, imbevuti di retorica bellica ma distanti dai reali drammi delle battaglie. Un romanzo duro e senza veli, basato su fatti e luoghi realmente accaduti e su personaggi che ricalcano individui veramente vissuti. Uno squarcio sull’incapacità di gestione della guerra e delle truppe che portò alla disfatta di Caporetto, ancora più illuminante se si pensa che Lussu, all’inizio della guerra, fu un convintissimo interventista.
Carlo Emilio Gadda e il suo “Giornale di guerra”
E un convintissimo interventista fu anche Carlo Emilio Gadda, che nel maggio 1915 scese in piazza in favore dell’entrata in guerra dell’Italia e ben presto si arruolò come volontario tra le truppe degli Alpini. Gadda combatté fino alla ritirata dopo Caporetto, nell’ottobre 1917, quando venne fatto prigioniero dagli Austriaci e poté fare ritorno a Milano soltanto nel gennaio 1919. Durante tutti gli anni della guerra, persino e ancora più fortemente nel periodo di prigionia, Gadda tenne un diario minuzioso in cui scriveva tutto ciò che gli accadeva, ciò che osservava e che veniva a sapere degli avvenimenti di altre parti dove si combatteva. In più si possono leggere commenti e annotazioni diaristiche, i suoi pensieri che aiutano a comprendere la realtà cruda nella quale si era volontariamente andato ad impantanare. Soprattutto dopo Caporetto e durante la prigionia in Germania, Gadda espresse sconforto e rabbia per la pessima gestione della guerra e delle truppe, per le condizioni infime e malsane a cui erano sottoposti i soldati e per l’odore di morte che si respirava ovunque. Queste riflessioni si accompagnano ad altre più generali, come il disprezzo delle gerarchie militari e il potere degli affetti che si rivelano maggiormente in momenti così tetri come la guerra. E per Gadda, lo si legge esplicitamente, l’affetto più grande era suo fratello Enrico, anche lui soldato (aviatore) e per il quale lo scrittore provava un affetto sconfinato. Purtroppo però solo Carlo Emilio sopravvisse alla Prima Guerra Mondiale e la notizia della morte prematura di Enrico sconvolse ancora di più il già turbato ingegnere milanese. Tutte queste esperienze, tutti questi diari, presero corpo in quello che si intitola “Giornale di guerra e della prigionia“, la raccolta dei suoi scritti che vide la luce, solo parzialmente, tra il 1955 e il 1965. Solo dopo la morte di Gadda venne pubblicata per intero un’altra opera che contribuisce a raccontarci il dramma, anche familiare, della guerra.
Ungaretti e Rebora: due veglie diverse accanto al compagno morto
Chiudiamo questa lista con un confronto piuttosto immediato, ma che rende bene l’idea dei diversi modi in cui si può vedere una cosa che sembra avere una sola possibile interpretazione. Anche se si parla di un cadavere. Giuseppe Ungaretti è il conosciutissimo poeta che ha colto dalla Prima Guerra Mondiale l’occasione di un’originale percorso poetico e biografico. Una guerra che Ungaretti stesso ammette di non aver mai voluto combattere, ma che “Allora ci sembrava necessaria“. L’esperienza bellica è stata un modo di conoscere se stesso e anche la fragile condizione umana, sempre in bilico e sull’orlo del precipizio ma proprio per questo con un maggiore attaccamento alla vita, con un sentimento di rinascita e compenetrazione con la natura. Lo si vede maggiormente quando Ungaretti si trova di fronte al corpo massacrato di un commilitone, come nella poesia “Veglia“. Anche nel momento più doloroso, anche laddove l’umanità nelle persone che si uccidono a vicenda sembra essersi estinta del tutto, Ungaretti recupera la devozione alla vita, la speranza nell’amore e nei valori umani (“Ho scritto lettere piene d’amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita“). Così l’orrore della guerra diventa terreno fertile per una rinnovata e rinforzata vitalità.
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Ma è molto meno consolatoria e speranzosa la poesia quasi “gemella” di Veglia che Clemente Rebora ha composto durante l’esperienza in trincea. Questo testo si intitola “Voce di vedetta morta” e parte da un momento molto simile a quello del componimento ungarettiano: la visione di un “corpo in poltiglia” di un compagno. Da qui Rebora parte per sottolineare la tragicità della guerra di trincea, arrivando a dire che se c’è un significato e un modo per riscattare la così fragile vita umana, esso è impossibile da trovare, o almeno per chi non ha fatto l’esperienza brutale della guerra. Da qui anche la conclusione problematica e cupa della poesia, in un’incertezza della vita che risale a quando davvero non si era certi di vedere il sole del giorno dopo. Qui sotto, in chiusura, lasciamo la poesia, per dimostrare quanto sia affine a “Veglia” di Ungaretti e come esempio fedele di cosa gli italiani abbiano realmente vissuto.
C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni,
tu, uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla del mondo
redimerà ciò che è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.