Il lucertolone post-atomico debutta sul grande schermo nel 1954, dando vita a un’epopea di 30 pellicole, accumunate dalla paura della bomba e della crescita tecnica senza controllo, incarnando la situazione-limite della paura della morte, teorizzata da Jaspers.
Per essersi meritato l’epiteto impegnativo di “re dei Mostri”, Godizilla ha dovuto fare breccia nel nostro immaginario, in qualche mondo occidentalizzandosi. Gojira, questo il suo vero nome, è apparso sul grande schermo per la prima volta nel 1954, in un lungometraggio prodotto dallo storico studio Toho (che firmerà 28 delle successive trenta pellicole del nostro mostro preferito). A esse si aggiungeranno anche alcune, dimenticabili, produzioni americane.
Quando la paura assume le fattezze di un bizzarro dinosauro moderno
Per dare una forma al mostro, pensato come un incrocio tra un gorilla (gorira, in giapponese, simbolo di forza) e una balena (kujira, per le dimensioni) si è scelta una forma rettiloide, che ricorda molto le illustrazioni dei dinosauri del libro delle medie. Ne è scaturita una creatura che cammina a due zampe e si trova a suo agio negli abissi così come sulla terraferma. Nel corso della sua epica pluridecennale, il re dei mostri ha cambiato altezza e poteri, attitudini e nemici, ma ha sempre mantenuto un legame a doppia mandata con l’energia nucleare. Il primo lucertolone del 1954, infatti, compare in un periodo funestato dai test atomici della bomba a idrogeno negli atolli del Pacifico. Se sommiamo il doloroso ricordo delle due bombe della Guerra, l’energia nucleare in Giappone appariva molto più che una semplice minaccia di morte. Sul palcoscenico della corsa all’atomo, poi, si sarebbe consumato il conflitto tra le due superpotenze. Il primo Godzilla si risveglia proprio a causa di un’esplosione atomica, in tutti i film prodotti in Giappone sputa fiamme radioattive e si nutre di radiazioni a vario titolo. Il mostro del film del 1998 (quello di Emmerich) si risveglia a causa degli esperimenti di Mururoa, mentre un incidente molto simile a quello di Fukushima scatena la bestia verde nella pellicola del 2014 di Edwards. Attraversando la soglia di una prima interpretazione, è fin troppo evidente la connessione profonda tra l’archetipo della paura e la sua incarnazione. L’orrore delle bombe brillava ancora in fondo a troppi uomini per fare finta di nulla: Godzilla evocava il timore per la bomba. Tutto rimanda a lì.
Il Novecento ha imparato a convivere con delicati passaggi storici in cui il rapporto tra uomo, natura e tecnica ha subito imprevedibili evoluzioni, costringendoci a ripensarne contenuti, confini e conseguenze. Secondo Jaspers, lo scopo della riflessione è quella di porre domande ed esigere dagli uomini una risposta. Di questa risposta occorre ritrovare quelle cifre essenziali che valgano e che siano capite da tutti. Trovato questo elemento originare e fondativo, si getta una pietra nello stagno dell’inquietudine, cercando di sollevare ondate di dubbio e qualche convinzione fondata.
Oltre la morte, oltre l’uomo, oltre la morale
Il 1956 è anche l’anno della famosa lezione radiofonica in cui Karl Jaspers parlò apertamente di bomba atomica come situazione-limite, una di quegli aspetti in cui si può vedere in controluce la trama ontologica ed etica di cui siamo tessuti. La spaventosa forza innescata da macchine di distruzione come Godzilla rimandano a quell’esperienza estrema, seppur umanissima, che per Jaspers è la morte. Ci arriva a scuotere dal profondo, risvegliando energie mentali profonde. Ereditando la tradizione di Heidegger del sentimento preparatore dell’evento estremo, anche Jasper rileva come la conoscenza della fine restituisca spessore all’esistenza. Non è pensando che sia senza fine che la nostra vita diventa unica e inimitabile, ma proprio perché teniamo d’occhio la sua scadenza che ne rileviamo questa pienezza. La decodificazione dell’immaginario collegato al film e al mostro, però, scuote radici più profonde e timori atavici del popolo giapponese. Oltre alla paura della tecnica fuori controllo, spersonalizzata e senza valori, grande è lo spauracchio della natura brutale, nella sua forza più crudele e primordiale. Sono gli elementi stessi a spaventare da millenni un popolo che ha vissuto sulla crosta bellissima e fragile di un’isola nata dal titanico scontro di tre placche tettoniche. Tsunami, terremoti ed eruzioni rappresentano un richiamo costante alla pochezza dell’uomo e al suo carattere mortale e transeunte. La morte chiude l’esistenza come possibilità (è il luogo possibile dell’impossibilità di ogni altra alternativa, per ritornare a Heidegger), soffrire per la morte non nostra, temerla come evento decisivo (e soggettivo, “questo ricordo non vi consoli, quando si muore, si muore soli”, dirà qualche anno dopo Fabrizio De Andrè) corrobora l’esistenza. Non la guasta, anzi, la nobilita. Vivere con terrore il trapasso ha come risultato quello di farci dimenticare della sua esistenza. Quello che sembra un bene, è, dal punto di vista esistenziale, un errore enorme: fingere l’esistenza della morte equivale a non rispettare la nostra stessa natura, tessuta nel tempo. Equivale a spogliarci del nostro diritto a dirci uomini. Godzilla invece incarna quella natura insensibile e sovrumana: non ha emozioni che possano essere poste sulla stessa scala di quelle umane. Come la natura non china il suo capo, Godzilla non muore mai (se non nelle produzioni americane che ovviamente necessitano di un finale accomodante).
“La scienza sa ma non ha il senso del suo sapere”
Uno dei temi cari all’esistenzialismo in tutte le sue sfumature, la finitezza dell’uomo, deriva dalla portata limitata della nostra presenza sulla terra e dal contatto con fenomeni di passaggio, poco fondati e poco rilevanti. La gabbia della gettatezza (l’essere calati in un mondo già nitido nei sui valori e nelle sue direttrici morali) chiude la porta alla trascendenza, rendendo vana e risibile ogni ricerca di un oltremondo valoriale e temporale. La soluzione di Jaspers è quella dell’impegno umano alla costruzione di nuovi valori razionali, che nascano dalla presa di coscienza del naufragio del contemporaneo e dei limiti della tecnica esasperata e del produrre a tutti i costi e nel solo mondo materiale. Con l’ethos rinnovato, tecnica, politica ed economia diventerebbero strumenti per il decollo verso un orizzonte inedito, ultramondano. Arrivando con occhi inumani a concretizzare l’impegno esistenziale del nostro pensiero, potremmo risalirne al fondamento.