“L’inutilità dello studio”: Agamben e Gadamer preservano la sua natura diamantina

Siamo persi nel mondo dell’innovazione, del progresso: tecnologie sempre più all’avanguardia, robot, viaggi verso Marte; ma cosa rimane delle nostre radici umanistiche?

Ripercorrendo la bellezza dell’ozio e della scholè cercheremo di salvare la grandiosità del finto far nulla.

Studiare?

Giorgio Agamben, riprendendo Benjamin, evidenzia la miseria non solo economica ma anche spirituale che da anni, forse secoli, rende vuota l’anima degli studenti.
Si è sempre alla ricerca di uno scopo, annichilendo così la vera essenza dello studio, quella di essere felicemente inutile, nel vero senso della parola, ovvero non servire praticamente – da praxis -> pratica – a niente.

I greci utilizzavano il termine scholè per identificare il periodo temporale in cui ci si riposava dalle fatiche della vita quotidiana, dedicandosi allo studio e al ragionamento, assurgeva quindi a momento “sacro” nella giornata, portando con sé un fascino accattivante.

La civiltà latina aveva come fondamento la dicotomia tra: otium, momenti che solo pochi potevano permettersi di dedicare a loro stessi e negotium per occuparsi delle questioni familiari, economiche e  sociali di tutti i giorni.

Verità e metodo 

Hans Gadamer ha un grande scopo: restituire alla cultura umanistica tutto il suo valore.

Gadamer, partendo dalla maieutica socratica, evidenzia come il dialogo sia il mezzo per la saggezza; individua nell’ ascolto e nella disposizione ad accogliere l’unicità dell’altro ciò che vivifica l’uomo, allontanandolo dalla mera esistenza.
Gadamer identifica la tecnica come “un deserto che cresce”, la cui vastità è sorprendente, paesaggisticamente parlando, ma la vita ‘vera’ si sviluppa soltanto attorno alle oasi rigogliose grazie alla saggezza del dialogo.

Nel rapporto con l’altro si cela la chiave per una crescita personale e umana, è infatti nel nostro interlocutore che risiede il valore di universalità: da soli si ha un’intuizione con il  confronto una certezza.

Studio “V” Ricerca 

Scrive  Agamben che lo studio non ha finalità particolari, non necessita di strumenti all’avanguardia;  la ricerca invece – come si evince dal termine stesso – “gira intorno”.

Studium: desiderare, non è il cercare, bensì l’essere mossi. Nelle scienze umane la ricerca è solo una fase temporanea: lo studio è un paradigma conoscitivo superiore alla ricerca, perché non finisce mai, non ha scopi precisi, non ha una finalità determinata.
L’obiettivo dello studio è uno soltanto: continuare a superare sé stessi verso un traguardo sempre più lontano.

Il segreto sta nel non considerare l’irraggiungibilità come un limite bensì come il motivo per cui vivere.

 

1 commento su ““L’inutilità dello studio”: Agamben e Gadamer preservano la sua natura diamantina”

  1. Dal Secondo Dopoguerra in poi, la riflessione contenuta nell’articolo, ha catalizzato l’attenzione di numerosi intellettuali provenienti da ambiti disciplinari diversi ed è poi sfociata – direttamente e non – in lavori a volte discordanti ma dalla indiscutibile fattura (penso tra gli altri ad Alberoni, Eco, De Mauro e alla attenzione da loro rivolta all’evoluzione del “sistema scuola” del nostro Paese).
    Il nostro tempo vede effettivamente una egemonia della tecnica. 
    È necessario attuare un coraggioso e rivoluzionario ritorno al passato, non da leggersi come regressione ma come imperativa riscoperta dei valori trasmessi dalla cultura umanistica.
    Reputo perciò più che indovinata la scelta dell’autrice di proporre nella seconda metà dell’articolo il virgolettato di Gadamer (che presumo estrapolato da Ermeneutica e metodica universale): “la tecnica come un deserto che cresce, la cui vastità è sorprendente, paesaggisticamente parlando, ma la vita ‘vera’ si sviluppa soltanto attorno alle oasi rigogliose grazie alla saggezza del dialogo”.
    La cultura umanistica ci protegge dall’aridità della tecnica e da una tecnocrazia che annichilisce il dialogo e conduce alla solitudine del singolo, di un cittadino poco consapevole delle proprie azioni.
    Ebbene sì, se si estendono tali riflessioni alla politica, ci rendiamo conto di quanto la perdita di facoltà di giudizio del moderno abitante della polis possa avere gravi ripercussioni sulla tenuta democratica.

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