Il 24 marzo è la giornata internazionale in cui si ricorda il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime.
Istituita il 21 dicembre 2010 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il suo scopo è di onorare la memoria delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani e promuovere l’importanza del diritto alla verità e alla giustizia, nonché quello di rendere omaggio a coloro che hanno dedicato la loro vita alla lotta per i diritti umani. I casi sono veramente tanti, più di quanti noi possiamo immaginare.
Perché è stata scelta come data il 24 marzo
La Giornata Internazionale per il Diritto alla Verità e alle gravi violazioni dei Diritti Umani è una celebrazione sovranazionale indetta dalle Nazioni Unite che si tiene in tutto il mondo il 24 marzo di ogni anno in occasione della ricorrenza per l’omicidio dell’Arcivescovo di San Salvador Oscar Romero, assassinato da un cecchino mentre stava celebrando una messa il 24 marzo del 1980, a causa del suo impegno radicale contro le violazioni dei diritti umani in America Latina, e successivamente, per volontà di papa Francesco, beatificato nel 2018. Oscar Romero era un pastore secondo la tradizione classica della Chiesa, pieno di compassione per il popolo affidatogli. Il suo senso di responsabilità era tale da essere disponibile a dare la vita per fedeltà alla sua missione. E in effetti andò incontro al martirio del tutto cosciente che presto sarebbe stato ucciso. Anche se avrebbe potuto farlo, non voleva abbandonare i suoi fedeli, i suoi poveri, allora preda di violenza e ingiustizia. Era un uomo umile, con un ideale di vita semplice. Ma anche un uomo fermo dinanzi al male e all’ingiustizia. Da grande predicatore divenne il riferimento del suo Paese nella scena pubblica. Lo si è presentato come un “politico”, in maniera negativa da parte della destra per squalificarlo e giustificare il suo assassinio, e in maniera positiva da parte della sinistra per farne una bandiera rivoluzionaria. In realtà, Romero parlava alto e forte in difesa delle vittime della violenza in forza della sua responsabilità pastorale e non perché volesse occuparsi di politica, della quale ammetteva serenamente di non essere esperto. Per l’America Latina, Romero incarna il Concilio Vaticano II nel suo amore per l’uomo contemporaneo. La sua morte si spiega anche perché lui ne è un precursore in un ambiente impreparato ad accoglierlo, con rapporti sociali quasi feudali, una cultura della sopraffazione, una Chiesa polarizzata tra clero reazionario e rivoluzionario. Romero è un simbolo del Vaticano II, adempiendo quel richiamo di Giovanni XXIII a essere Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri. Viveva sobriamente nelle stanzette del custode di un ospedale per malati terminali, e li visitava regolarmente. Romero non è un modello di intellettuale, di teologo, o di politico, ma di pastore. Se le Nazioni Unite giustamente, e laicamente, lo celebrano ogni 24 marzo come campione di diritti umani, lo si deve alla sua compassione, davvero cristiana, per le vittime della violenza e dell’ingiustizia.
Come il sistema internazionale “celebra” questa giornata
Per assicurare una spiegazione completa ed esaustiva del diritto alla verità occorre, prima di tutto, soffermarsi brevemente sul sistema di protezione dei diritti umani che opera e si sviluppa su più livelli nel contesto globale. Sul gradino più alto di questo sistema troviamo i documenti internazionali che sanciscono una vasta serie di diritti umani, primo fra tutti la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Parallelamente, si sviluppano strumenti analoghi in sede regionale per favorire l’implementazione e il rispetto di questi diritti e principi fondamentali tra Stati. Infine, l’ultimo livello, nonché quello primario del sistema di protezione dei diritti umani, è quello nazionale. Storicamente, le prime concettualizzazioni dei diritti umani si sviluppano come parte del diritto costituzionale nazionale. È indispensabile che i diritti umani facciano parte dei sistemi costituzionali e giuridici nazionali, poiché le norme nazionali sono più direttamente applicabili, creano un quadro chiaro per organi di Stato, come le forze di polizia, e contribuiscono a una migliore cultura dei diritti umani. Allo stesso tempo, tuttavia, gli Stati costituiscono non solo il tassello più importante di questo sistema di protezione, ma anche quello più debole, dal momento che è proprio a questo livello che si manifestano le violazioni dei diritti umani. Il diritto alla verità inizia a prendere forma in seno alla giurisprudenza delle Nazioni Unite verso l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, in concomitanza con l’avvio dei processi di democratizzazione in America Latina, in seguito alla caduta dei regimi autoritari nella regione. In questo contesto, il diritto alla verità assume due dimensioni, riferendosi da un lato al diritto delle famiglie di conoscere la sorte dei propri cari, vittime dei crimini perpetrati dai regimi ormai caduti, e dall’altro al dovere degli Stati coinvolti di ricercare le persone scomparse. Il complesso assetto valoriale che il concetto di verità porta con sé viene, quindi, ricollegato a una serie di diritti e principi fondamentali già codificati nelle fonti normative internazionali. Nello specifico, questa iniziale enunciazione del diritto alla verità fa riferimento per la prima dimensione al diritto a essere liberi da torture e maltrattamenti, riconosciuto ai parenti di vittime di sparizioni, e per la seconda dimensione al diritto a un rimedio.
Quali possono essere, però, gli ostacoli al diritto alla verità: il caso italiano del G8 di Genova
Tuttavia, come si può ben immaginare considerando le modalità attraverso cui gli organi giuridici internazionali e sovranazionali sono chiamati a intervenire, lo stesso approccio propositivo non si riscontra in sede nazionale. È proprio a questo livello, infatti, che il diritto alla verità si scontra con una serie di meccanismi e strumenti giuridici o politici che ne minano le basi. Soprattutto, e ancor più grave, l’ostacolo principale all’applicazione di questo diritto risiede nella ritrosia degli organi nazionali ad adeguarsi all’assetto normativo contenuto nei documenti internazionali o sovranazionali di diritto umanitario che gli Stati stessi si sono impegnati a rispettare. Ad esempio, un mancato impegno nel rispettare il diritto alla verità, sono stati i casi Cestaro, Blair e Azzolina, riguardanti gli eventi accaduti a Genova nel 2001, durante il summit del G8. Il caso Cestaro ruota intorno alle aggressioni perpetrate dalle forze di polizia nel corso dell’irruzione effettuata a scopo di perquisizione nella scuola Pertini-Diaz. In seguito al blitz il signor Cestaro, che pernottava presso la struttura, riportò fratture multiple. I casi Blair e Azzolina, invece, riguardano i fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto dove, di nuovo, le forze dell’ordine italiane vennero accusate di maltrattamenti e atti di tortura nei confronti dei ricorrenti. In sede processuale emersero tutta una serie di complicazioni che nullificarono di fatto l’efficacia del diritto alla verità. Per cominciare, nel corso delle indagini le forze di polizia non cooperarono. Al contrario, rallentarono e impedirono intenzionalmente l’individuazione dei colpevoli e la ricostruzione dei fatti accaduti. Inoltre, in sede processuale si decise di non applicare la normativa CEDU che faceva riferimento al reato di tortura e ai maltrattamenti. Si optò invece per l’applicazione della normativa penale interna che, ai tempi, non comprendeva una legge sulla tortura. In questo modo le azioni dei colpevoli vennero categorizzate come “lesioni gravi” e i responsabili poterono beneficiare di leggi di prescrizione e/o indulto che portarono all’abbreviazione o all’annullamento totale della pena. Ciò è dovuto al fatto che la legge italiana considera non estinguibili i soli reati per i quali sia prevista una pena all’ergastolo, cosa non contemplata dalla normativa applicata in questi casi. A ciò si aggiunge che, per tutto il corso delle indagini e dei processi, nessuno degli imputati venne sospeso dal proprio incarico e alcuni di loro beneficiarono di promozioni di grado. I ricorrenti dei casi in questione si rivolsero successivamente alla Corte EDU. I giudici europei sottolinearono con preoccupazione tutte le criticità del caso, enfatizzando la palese mancanza di volontà da parte dei legislatori e degli organi giudiziari nazionali di assicurare giustizia e verità alle vittime e alla collettività. Al fine di scongiurare il ripetersi di eventi simili, la Corte europea invitò l’Italia ad adeguare al più presto la normativa interna in conformità con le disposizioni internazionali e sovranazionali in materia di tortura. All’indomani della chiusura dei processi europei sulle vicende della Diaz e di Bolzaneto, si aprì in sede parlamentare l’iter legislativo per introdurre nel Codice penale italiano una legge sul reato di tortura, promulgata il 14 luglio del 2017.