L’Anfiteatro Flavio: immagine storica di una dinastia che cambiò il volto di Roma

Impossibile ignorare la bellezza di un monumento come il Colosseo, giungendo a Roma: oggi è ispirazione di nuovi progetti.

Interno dell’anfiteatro

L’Anfiteatro Flavio, monumento che secerne ancora le urla delle anime affrante dei gladiatori, viene oggi restaurato, ma nulla sostituisce la sua valenza storica.

Il Colosseo: monumento riviviscente

Il Colosseo, l’arena romana più famosa pervenuta al giorno d’oggi, voluta dai Flavi ed utilizzata nell’arco dei secoli per dar vita alle politiche che ubbidivano al monito di neroniana memoria “panis et circenses”, conosce un nuovo sviluppo. Secondo quanto riportato dall’Ansa (https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/arte/2020/12/22/colosseo-al-via-la-gara-per-larena_cd1cf461-2453-4c28-acf0-2af63579da95.html) , il ministro  Franceschini avrebbe dato vita al progetto ideato dall’archeologo Manacorda: riportare il monumento al suo antico splendore, rinnovando ed inserendo la fitta trama di impalcature che permettevano la perfomance dei più complessi e sanguinosi spettacoli. L’idea sarebbe dunque quella di far rivivere l’arena di Domiziano, integrando anche i risultati di studi recenti sull’argomento, permettendo al fruitore una visione dialogica fra la complessa costruzione interna delle “machinae” ed il risultato all’esterno. Per il progetto sono stati stanziati 18,5 milioni di euro con un bando che scadrà il primo di Febbraio, e dunque adesso la sfida è riuscire a trovare una squadra di esperti che lo sviluppi.

Altra veduta del Colosseo

La complessa struttura dell’anfiteatro

Un grande teatro popolare, dotato delle tecnologie più avanzate per l’epoca, montacarichi e complesse macchine di scena per dare vita agli spettacoli più coinvolgenti: cacce, combattimenti, persino battaglie navali. Esso aveva il suo fulcro proprio nell’arena di legno, un tavolato che in antico misurava 76 metri per 44 ed era ricoperto di sabbia.  Ragguardevole strumento di consenso, da Domiziano ai Severi, fu modificato e migliorato fino a farne una “macchina” da spettacoli, per l’epoca incredibilmente avanzata con decine di montacarichi (addirittura 60 nell’epoca dei Severi) capaci di rovesciare sulla scena contemporaneamente decine di bestie feroci . Nelle intenzioni dei primi architetti lo spazio dell’arena in legno era pensato per essere allagato e permettere così l’organizzazione delle naumachie, che facevano rivivere storiche battaglie navali in scala ridotta, come racconta Marziale nei suoi “Epigrammi”. Ma lo spazio dell’anfiteatro evidentemente era poco adatto a questo genere di spettacoli, per cui Domiziano decise di trasferirli in altre sedi, trasformando la scena con un complesso sistema sotterraneo dal quale, grazie a diversi macchinari, scenografie e belve venivano fatte salire sul piano dell’arena. I sotterranei erano organizzati in quindici corridoi di cui otto paralleli a una galleria centrale, e custodivano le attrezzature necessarie per i giochi, le armi e le gabbie per gli animali. Montacarichi azionati da argani erano usati per far comparire al centro dell’arena , attraverso botole e piani inclinati , gladiatori, animali e macchine sceniche. Una tecnologia che aveva bisogno largamente del lavoro umano, se si pensa appunto che all’epoca di Domiziano per muovere contemporaneamente i ventotto “ascensori” presenti servivano duecentoquarantaquattro persone.

La dinastia che cambiò il volto di Roma

La dinastia dei Flavi, che conobbe il governo di tre imperatori: Vespasiano, Tito e Domiziano, diede una svolta importante all’Impero, e non soltanto per la costruzione dell’Anfiteatro. Sarebbe impossibile riassumere le imprese di questi tre grandi reggenti (definisco tale anche Domiziano, seppur sottoposto alla “damnatio memoriae”), in quanto ognuno diede alla storia un’impronta significativa, ma proverò ad effettuarne una breve summa in questo luogo.

La furbizia dell’optimus princeps

Tito Flavio  Vespasiano, detto “optimus princeps”, emerse dalla guerra civile del 69 d.C, a seguito dell’imperio dell’anziano senatore Sulpicio Galba. La guerra culminò con la battaglia di Bedriaco fra Galba, Otone e Vitellio, che a  parere di Tacito fece emergere la necessità del sostegno dell’esercito per diventare imperatore, nella quale emerse la figura di Vespasiano, comandante delle truppe impegnate nel controllo delle rivolte in Giudea. Il punto di forza di Vespasiano consisteva nella possibilità di interrompere i rifornimenti di grano per Roma dall’Egitto. L’esercito di Vitellio venne sconfitto in pochi mesi, mentre lo scontro fra i sostenitori dei due aspiranti imperatori continuava a Roma, dove fu incendiato il Campidoglio e Vitellio venne ucciso. In attesa dell’arrivo del princeps, la reggenza fu assunta dal figlio minore, Domiziano, mentre la campagna in Giudea continuò per l’intervento di Tito, altro figlio dell’imperatore.

L’imperatore legittimato dall’esercito

Il documento che conferma effettivamente quanto sostenuto da Tacito è la “Lex de imperio Vespasiani” , emanata nel 70 d.C, che legittima il potere di Vespasiano in quanto sostenuto dall’esercito, e non più nominato dal senato: una svolta storica assoluta. L’imperatore si trovava già in tarda età quando assunse il potere: aveva settantasei anni, così nominò Tito successore attribuendogli il titolo di “pater patriae” e conferendogli la “tribunicia potestas”.La politica estera di Vespasiano fu alquanto prolifica: se in età aurea il controllo dei confini era basato sul controllo di stati-cuscinetto, ovvero ciò che Gaio Giulio Cesare Ottaviano aveva definito “province dell’imperatore”, il primo dei Flavi si occupò invece di costruire il “limes”, quella fitta rete di fortificazioni che circoscrivevano un impero che non aveva ancora raggiunto la sua massima espansione (l’avrebbe raggiunta sotto il visigoto Traiano). Dunque una politica di consolidamento, di fortificazioni: egli represse le rivolte dei Batavi, nonché quelle giudaiche (gli Ebrei venivano considerati pericolosi per i riti cristiani definiti “misterici”, che avrebbero potuto sovvertire l’ordine politico basato sulla venerazione dell’imperatore).  Fu alquanto accorto nelle spese, cercò di recuperare le terre pubbliche finite in mano ai privati, ed impose nuove tasse per il controllo delle casse imperiali. Iniziò un importante progetto urbanistico nel 69, che sarebbe poi stato portato a termine dal suo successore nell’80: la costruzione dell’anfiteatro Flavio, come segno della rottura con il passato iniziato dalla dinastia.

Il principato di Tito e di Domiziano

Alla morte di Vespasiano, avvenuta nel 79, successe con tranquillità il figlio Tito, definito da Svetonio “delizia del genere umano”, a motivo della sua pacifica concordia con il senato. Continuò la politica oculata e risparmiatrice del padre, determinò la diaspora ebraica e soccorse la popolazione campana nella disastrosa eruzione del Vesuvio che avvenne giusto nell’anno della sua incoronazione. Il suo principato durò solo due anni, e nell’81 succedette il fratello Domiziano, che governò fino al 96. Il suo principato iniziò in maniera ordinata ed equilibrata: tolse potere ai liberti, rafforzò la burocrazia conferendo potere a rappresentanti del ceto equestre, e aumentò lo stipendio al soldati per la prima volta dall’epoca di Cesare Ottaviano, misura fondamentale per diminuire la quantità di rivolte, anche perché una quantità sempre maggiore di mercenari era entrato a farne parte. La politica estera non conobbe ragguardevoli successi: a seguito della minaccia dacia, Domiziano dovette stipulare un patto con il re Decebalo nell’89: i Romani avrebbero pagato un tributo per impedire le invasioni. A differenza dei suoi predecessori, entrò in aperto conflitto con il senato, esautorandolo. Assunse la carica di “censor per vitam” , controllando le liste dei senatori e pretendendo di essere venerato come “dominus ed deus” . Da ciò scaturì una serie di conflitti che culminarono con una congiura, alla quale pare che nemmeno la moglie fosse estranea, a cui fece seguito la “damnatio memoriae”. Un lungo asse storico, dunque, quello dei Flavi, che resiste ancora oggi ed influenza la nostra cultura, erede della “latinitas”.

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