Le ragazze di Sofia Coppola: adolescenti intrappolate che parlano di tutte noi

Le figure femminili sono uno dei cardini principali delle opere cinematografiche di Sofia Coppola, viaggiano nel tempo e appartengono a luoghi diversi. Eppure, sono tutte accumunate da un filo rosso che si estende, inevitabilmente, anche alla vita della stessa regista.

Immagine presa da una scena del film “Lost in Translation” pubblicata dalla Universal Picture su YouTube

Mercoledì scorso è uscito l’ultimo film di Sofia Coppola, incentrato sulla figura della moglie di Elvis Presley e sulle sue vicende personali, raccontando il suo punto di vista. Non è un tema nuovo per la regista: che siano regine a Versailles, giovani ragazze in hotel di lusso a Tokyo, o adolescenti strettamente sorvegliate da famiglie conservatrici, le sue donne sono sempre ragazze dalle emozioni roventi e selvagge ma rinchiuse in gabbie dorate.

Superficialità

Cos’hanno in comune Charlotte (protagonista di “Lost in Translation”), Lux (giovane adolescente della pellicola “Il giardino delle vergini suidicide”), Maria Antonietta e Priscilla (entrambe protagoniste dei rispettivi ed omonimi film) ? Apparentemente nulla, se non di essere tutte creazioni (o reinterpretazioni) della regista Sofia Coppola. Eppure, il filo rosso che lega tutte loro, è proprio il modo e il momento in cui vengono disegnate: sì, perché la mano della regista traccia confini ben precisi attorno ai suoi personaggi.
Sono tutte ragazze molto giovani, in preda a emozioni e sentimenti dal sapore adolescente e immaturo, che all’inizio del film risultano frivole e superficiali, prima tra tutte, Maria Antonietta, la regina dell’opulenza e dello spreco.
Il modo in cui la regista descrive il carattere delle sue ragazze, attraverso la mise en scene, è diventato ormai peculiare della sua estetica: camera da letto disordinata, pile di vestiti ovunque, scarpe lanciate in giro, poster appesi alle pareti e mobiletti ricolmi di boccette di profumo, oggetti e piccole statuine e miniature.
A volte, il disordine è talmente tanto radicato nel personaggio, da oltrepassare anche i confini del tempo, portando un paio di Converse nella camera da letto della regina di Versailles, creando un anacronismo divenuto iconico.

Immagine presa dal trailer del film pubblicato Netflix Latinoamerica, presente su YouTube.

Molto altro

Eppure, quando il il film entra nel vivo, il pubblico si rende conto di stare osservando la superficialità delle sue ragazze, ma ciò non lo autorizza a etichettarle come frivole.
Come ha raccontato la regista alla rivista Vanity Fair:

Non capisco perché guardare la superficialità dovrebbe renderti superficiale

Quindi, Sofia Coppola va oltre, e, attraverso una estetica e una narrazione ben studiate e precise, racconta le sue ragazze: spesso, le inquadra con piani sequenza lenti e silenziosi mentre guardano, melanconiche e sole, fuori dalla finestra, isolate dal mondo esterno.

Nel suo film d’esordio “Il giardino delle vergine suicide” (tratto dall’omonimo romanzo) del 1999, la clausura e l’oppressione pervadono ogni fotogramma all’apparenza allegro e spensierato: impossibile dimenticare la potentissima inquadratura di un reggiseno di pizzo rosa steso ad asciugare su un crocifisso di legno.
In “Marie Antoinette” la regista ha studiato uno scambio di battute tra una dama di compagnia e la regina di Francia, che scardina il falso storico e restituisce dignità al personaggio di Maria:

“Se non hanno più pane, che mangino brioches”
“Ma che assurdità è mai questa”

Quindi, al di là dell’apparente e iniziale superficialità con cui descrive i suoi personaggi, è evidente che nessun regista è mai riuscito a descrivere la sensazione di claustrofobia e clausura che caratterizza l’adolescenza femminile (e molti altri periodi della vita delle donne), nel modo in cui lo ha fatto Sofia Coppola.

Vissuto personale

Semplificando la teoria Stanislavskij, si può dire che il metodo per aiutare gli attori teatrali a recitare con maggiore verità, consiste nel pensare a un evento della propria vita privata e personale che faccia corrispondere i sentimenti tra attore e personaggio.
Questa teoria può essere estesa ed applicata a molti ambiti delle produzioni artistiche, e, in particolare, riguarda anche i registi.
Per questo motivo, Sofia Coppola, è riuscita così bene nel suo lavoro: ha raccontato qualcosa che conosceva e che aveva individuato anche nella collettività.
Circondata, fin da bambina, da set cinematografici importantissimi e incentrati su vicende per lo più maschili (cfr il film “Apocalypse Now” di F.F. Coppola), si è inevitabilmente legata all’inespresso punto di vista femminile. Ed è per questo che le preme raccontarlo, anche a costo di sacrificare delle battute ai personaggi maschili, come è accaduto in “Marie Antoniette”.
Ha dichiarato di essersi sorpresa del successo del suo film “Lost in Translation” perché, secondo lei, parlava soltanto di una ragazza ricca e sposata con un uomo famoso, che cerca di trovare se’ stessa.
Invece, il pubblico si è identificato in quella coppia di estranei che, in una confusa e nebbiosa Tokyo, vive un momento di autenticità e riscopre il senso dell’auto affermazione.
Il cinema di Sofia Coppola, quindi, ci ricorda che la qualità delle opere cinematografiche riguarda, soprattutto, l’autenticità con se’ stessi e la società, e la sincerità di intenti.

 

 

 

 

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