Social e sentimenti in vetrina: cosa ne penserebbe il poeta Archiloco?

Cosa direbbe uno dei più grandi lirici arcaici greci, di questo mondo in cui la privacy va un po’ a farsi benedire, dando continuo spettacolo anche dei nostri sentimenti?

Ci stiamo prendendo un po’ la mano, con questa faccenda di pubblicare pressappoco tutto quello che ci succede, dalle serate con gli amici, alle canzoni preferite, dai messaggi privati, ai momenti più imbarazzanti. Si dice che ogni volta che scriviamo qualcosa, lo facciamo affinché qualcuno lo legga: poco importa che siano appunti, poesie, un libro, o la lista della spesa. Si scrive per dire qualcosa, a noi stessi, alla persona che amiamo, o al mondo intero. Ma allora, quando “pubblichiamo”, per chi scriviamo? Vediamo se il maestro del giambo, saprà risponderci.

“In tanti mi avete chiesto”

Eccolo il nuovo lavoro dalle uova d’oro: l’influencer. Ma cosa dovrebbe fare esattamente? “Influenzare in modo rilevante le opinioni e gli atteggiamenti degli altri in ragione della sua reputazione e autorevolezza rispetto a determinate tematiche o aree di interesse” (www.glossariomarketing.it). Quindi, tecnicamente, non stiamo parlando di opinionisti o di esperti, ma di personaggi che “fanno e dicono cose”, e di persone che si sentono ispirate da ciò: stile spirito guida, no? Si è iniziato pubblicando foto, pensieri, articoli di giornale, informazioni, e siamo arrivati a tutorial di make-up e maschere per capelli. Ma fin qui, non ci sarebbe neanche nulla di così strano, dopotutto, ognuno condivide e guarda quello che preferisce. Eppure, il 2 Agosto del 2016, c’è una novità: Instagram lancia le “stories”, contenuti pubblicabili, che vengono cancellati automaticamente dopo ventiquattro ore (format che già esisteva in altri social, vedesi “snapchat”). Ed ecco le prime foto con le orecchie da cane, i video della serata in discoteca e delle canzoni urlate a squarciagola in macchina con le amiche. Proseguiamo poi con le frecciatine verso l’ultimo ex-ragazzo e la nuova fidanzata, con le citazioni strappalacrime: “Non farò il tuo nome, ma mi manchi da morire” etc. etc., fino a video di pianti post-rottura, accompagnati da: “Visto che in tanti mi avete chiesto, mi sentivo in dovere di…”. In dovere. Ora, non staremo qui a sindacare se le lacrime siano vere o meno, e sulle abilità di recitazione di certi individui, ma la parola sconvolgente è questa: dovere. Far vedere! Mostrare la gioia, la felicità, la sofferenza, quella passeggera e quella profonda, la tristezza per un insuccesso e il dolore marcio di un lutto. “Venghino siori, venghino!”. Tutto è in vetrina, acquistabile ed osservabile, a disposizione di chiunque. La domanda non è più, allora, quanto valgano i sentimenti, ma quanto costino. (Parecchio, secondo le varie stima di guadagno).

“NON TROPPO!”

Archiloco, il primo poeta del giambo, polemico e cinico, nel suo frammento 128W., ci invita alla “metriotes”. Letteralmente, si tratta dell’avere la “giusta misura”, del “non esagerare”, del capire quando fermarsi. “Me lien” dice Archiloco, “non troppo”, “non vantarti apertamente”: non mostrare. Non dobbiamo dimenticarci, che quello greco, è il mondo dello spettacolo, della “civiltà della colpa e della vergogna”, in cui il parere degli altri pesa e schiaccia. Ma il giudizio riguarda le azioni, il valore, le decisioni, le imprese! Non i sentimenti. Quelli sono personali, “robba propria”. Si tratta di un mondo in cui bene e male sono concetti altamente relativi, in cui ciò che conta davvero è l’utile, per la propria città, per la patria, per la famiglia, una realtà in cui sbagliare non è nemmeno un’opzione. E questo non vuol dire che i sentimenti siano qualcosa di cui vergognarsi, anzi: lo stesso Omero, quando ci presenta Odisseo, ritrae un uomo in lacrime, spossato, stanco, schiacciato a terra. Ma Archiloco allora di che parla? I sentimenti vanno bene, benissimo! ci rendono umani, ci fanno sentire vivi, ci infiammano e ci danno la carica, le emozioni ci mantengono coscienti.  Quello che non va bene è svenderli, regalarli, farli vedere a tutti: “i panni sporchi si sciacquano in casa”. È un discorso di dignità, di pudore, di rispetto per se stessi e per quello che si prova. È la potenza di una riservatezza non ottenebrata dalla vergogna, che non ha bisogno di essere mostrata al mondo per convincerlo della sua autenticità.

VALETE LO STESSO

Ecco dunque, cosa ci direbbe, che il valore resta lo stesso, che si può stare male senza che il mondo lo sappia necessariamente. Ci dice che una storia finisce e fa male, e che la gente questo lo sa, senza doversi pateticamente riprendere mentre si versano le lacrime più tristi, che alcune cose bisognerebbe tenerle per sé, che non c’è alcun motivo di regalarsi così, di darsi in pasto ai leoni. E lo dice un poeta! Uno che per definizione con le emozioni ci lavora, con la rabbia. la frustrazione, l’odio, perché credetemi, uno che scrive giambi, proprio contento non è. E “buttare fuori”, come si dice oggi, sfogarsi, liberarsi di certi pesi va più che bene, e magari davvero ognuno sceglie il modo che preferisce. Mi si potrebbe dire: “È più la gente che ha letto i frammenti di Archiloco, che quella che guarda le mie stories”. Verissimo. (Grazie a Dio aggiungerei). Ma allora, vi chiedo io, perché le stories? Perché un video di ventiquattro ore e non un post, una poesia, un cortometraggio? Perché non renderle davvero “indelebili”, senza scadenza? Se non c’è alcuna vergogna, qual è il problema? Se condividere i nostri sentimenti, le emozioni, è davvero così importante, irrinunciabile!, perché sono ventiquattro ore? I poeti antichi volevano che le loro opere, ciò che pensavano e dicevano, venisse scolpito sulla pietra, volevano che durasse per sempre. Volevano influenzare davvero, loro: avevano qualcosa di importante da dire, ed erano disposti a tirare fuori le loro intimità, ad esporle al mondo, solo perché non morissero mai. “Fatevi gli affari vostri”, direbbe Archiloco, “ma se proprio dovete farlo vedere, allora, fatelo per bene”.

 

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