Ossessione e follia: “Ripley” ci racconta il disturbo della personalità tra luci e ombre

Ad inizio Aprile è approdata sulla piattaforma Netflix la miniserie “Ripley”, trasposizione a puntante del film “Il talento di Mr. Ripley”. Scopriamo perché, a distanza di solo venticinque anni, questa storia continua ad intrigare e tenere tutti incollati allo schermo. 

Immagine presa dal trailer della miniserie di Netflix Italia, presente su YouTube.

La miniserie, ambientata nel 1961, inizia a New York, dove il protagonista conduce una vita da mediocre truffatore, poi si svolge quasi prevalentemente nella soleggiata e sovraesposta Italia.
Lo sceneggiatore e regista Steve Zaillian, ha rielaborato il film del 1999  (a sua volta tratto dal romanzo di P. Highsmith) adottando un’estetica tutta noir e omaggiando il realismo italiano. Ma cos’è che spinge i registi e il cinema ad affrontare più volte la stessa storia e, per estenzione, la sua tematica? La trama ben strutturata ha molta importanza, ma nel personaggio di Tom Ripley c’è molto di più.
Per chi non l’avesse ancora visto: attenzione agli spoiler!

New York

Il film, in bianco e nero, inizia con una serie di inquadrature tecnicamente perfette, che incorniciano i movimenti del protagonista e ci fanno calare nella sua realtà fatta di truffe, squallore, crepe nei muri e nei bagni scalcinati del suo condominio. Questi primi momenti in compagnia di Tom Ripley, ci fanno intendere che sotto la superficie di apparente uomo comune, si cela qualcosa di oscuro, repulsivo come l’acqua nera che ogni tanto riemerge dallo scarico della sua doccia.
Come tutti, Tom sperimenta l’alienazione della vita fatta di stenti, delle preoccupazioni quotidiane legate al denaro, della sensazione di non essere diretti da nessuna parte e di stare semplicemente sopravvivendo.
Improvvisamente, però, gli capita un’ottima occasione: Herbert Greenleaf, ricco imprenditore americano, è convinto che Tom sia amico di suo figlio Dickie, e gli propone di partire a sue spese per l’Italia al fine di cercare di convincere il figlio a tornare a casa.
Per Tom, quella è la “svolta” che tutti sognano, la possibilità di emergere dai quartieri di inferriate, fango e aria malsana. Il protagonista la coglie al volo, e lo spettatore, che si è già immedesimato grazie a movimenti di macchina ben studiati e molto “intimi”, è contento di partire con lui all’avventura.

Immagine presa dal trailer della miniserie di Netflix Italia, presente su YouTube.

Atrani

Quando arriva ad Atrani, città della costiera Amalfitana, Tom simula un incontro sulla spiaggia con Dickie, che se ne sta a prendere il sole con la sua fidanzata. Il ragazzo, ovviamente, non è del tutto sicuro di conoscere Tom, ma si fa incuriosire da quell’individuo fuori contesto ma in qualche modo dalle fattezze familiari.
I due, non potrebbero essere più diversi: Jhonny Flynn, che interpreta Dickie, è biondo e ha gli occhi chiari, indossa camice di lino e mocassini, in perfetto stile italiano old money.
Andrew Scott, che interpreta Tom Ripley, ha i capelli scuri e gli occhi di un nero penetrante, indossa un costume un po’ ridicolo e non è per niente a suo agio nell’acqua.
La distanza tra i due personaggi è ben visibile, mentre nel film del 1999, Matt Damon e Jude Law erano molto più simili.
Esteticamente parlando, il protagonista era comunque bello e solare, dall’ aspetto piacevole e ordinato, mentre, nel caso di A. Scott, il suo Tom è molto meno carismatico e poco affascinante; ha l’aria da truffaldino che non riesce a scrollarsi di dosso, tanto che Dickie, a un certo punto, gli dirà “perché quel malavitoso ti parlava come se fossi uno di loro, come se avesse familiarità con te?”.
La sua ordinarietà e la sua invidia rabbiosa verso i “privilegiati ricchi”, lo avvicinano a tanti uomini comuni, rendendolo familiare al pubblico e al suo inconscio desiderio di riscatto.
Infatti, rispetto al film del 1999, il pubblico di oggi cerca un personaggio che rispecchi i tempi che vive, incerti e traballanti in termini sociali, tanto che il Tom di A. Scott sembra la versione adulta di Oliver Quick di “Saltburn”, altro film dello stesso genere e tematica che ha riscosso molto successo, su cui ho già pubblicato un articolo.
I costumi di “Saltburn”: espressione dei personaggi ma anche del nuovo millennio
Appena Tom entra nella sontuosa villa che Dickie ha affittato in cima al paese, si rende conto che questo non ha nessuna intenzione di tornare in America: la sua è una vita da rampollo ricco di buona famiglia, dipinge, studia l’arte e si gode il clima italiano con la sua fidanzata francese.

Venezia

Un’altra differenza col film del 1999 e col romanzo, è che in questa miniserie Tom, entrato in confidenza con Dickie, gli rivela il vero motivo per cui si trova in Italia. Questo perché la sua devozione nei confronti dell’amico, lo conduce ad abbandonare la missione affidatagli dal padre e a dimostrare fedeltà alla sua nuova ossessione: Dickie.
Lui, però, non ricambia totalmente i suoi sentimenti, e quando riceverà una lettera dal padre che lo invita a non fidarsi di Tom, cercherà di allontanarlo.
Di fronte alla prospettiva di tornare alla sua mediocre vita di New York dopo aver assaggiato tanta bellezza e colore, Tom uccide Dickie e ne assume l’identità. E’ così che lui corona il suo amore e la sua invidia verso il ricco rampollo: lo mantiene in vita diventando lui stesso Dickie, impersonificando la sua ossessione e godendo mentre soddisfa il suo ormai palese disturbo della personalità.
Con questo primo omicidio, lo spettatore si risveglia dal sogno di pace e grazia che aveva visto fino a quel momento, ritrovandosi ad aver simpatizzato con un assassino, il cui profilo psicologico è quello di un malato ossessivo che pulisce con attenta psicosi il sangue dalle mattonelle.
In un periodo storico in cui chiunque può fingersi qualcun altro e assumere identità fittizie online, oppure ricorrere alla chirurgia estetica per alterare la propria immagine fino a diventare irriconoscibile, questa storia basata sul disturbo ossessivo della personalità, risuona a tutti e coglie l’attenzione di ogni spettatore, che segue agghiacciato e impotente l’evolversi della follia di Tom Ripley.
Il finale, cinico e maligno, vede il protagonista che, a differenza di tutte le versioni precedenti della storia, ha lasciato l’Italia e si è costruito un impero nel mondo dell’arte, a cui lo stesso Dickie l’aveva introdotto.
Lo spettatore spegne il televisore, rimanendo col telecomando in mano e l’amaro in bocca, pervaso dalla tragica e inevitabile follia di questo personaggio così intrigante, pervasivo e ancora molto contemporaneo.

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