Parlare da soli non è sinonimo di follia, anzi, è un comportamento positivo perché migliora le capacità di ricerca spaziale, l’autocontrollo e la presa di decisione.
![Parlare da soli](https://www.ilsuperuovo.it/wp-content/uploads/2019/08/Parlare-da-soli.jpg)
Sarà capitato a tutti noi, almeno una volta nella vita, di sostenere una conversazione con se stessi. Ne scaturiscono delle conversazioni anche piuttosto importanti che molto spesso ci permettono di risolvere un problema o di prendere in considerazione altre soluzioni ed altri punti di vista. Nell’immaginario comune però parlare da soli è associato automaticamente alla follia, più precisamente anche alla schizofrenia per via di quel ‘sentire le voci nella propria testa‘. In realtà gli studi condotti in merito suggeriscono tutt’altro. Sembra infatti che parlare da soli apporti dei benefici alle nostre funzioni cognitive, in modo particolare alle capacità di ricerca spaziale, all’autocontrollo ed ai processi decisionali.
Il primo studio
Gli psicologi Gary Lupyan e Daniel Swingley hanno condotto alcuni esperimenti per capire se parlare da soli potesse aiutare nella ricerca di alcuni oggetti. Questa ricerca in un certo qual modo si basa su quello che accade nella quotidianità: quando si perde qualcosa, solitamente la persona interroga se stessa, ponendosi delle domande ad alta voce nel tentativo di ricordare dove potrebbe aver messo il cellulare o il telecomando. Pronunciare il nome dell’oggetto ad alta voce infatti non è solo una richiesta di aiuto rivolta alle persone che ci circondano, ma ci aiuta anche a focalizzare la nostra attenzione sull’oggetto in questione.
In un primo esperimento, i ricercatori hanno inizialmente mostrato ai partecipanti alcune immagini di oggetti e poi li hanno suddivisi in due gruppi. Il primo gruppo doveva cercare un oggetto ben preciso (per esempio una forchetta o un telecomando), mentre il secondo gruppo doveva dire a voce alta (più volte se necessario) il nome dell’oggetto che stava cercando. I risultati hanno indicato che i partecipanti appartenenti al secondo gruppo trovavano gli oggetti molto più velocemente rispetto al primo gruppo.
Nel secondo esperimento invece i partecipanti sono stati messi nella condizione di dover fare la spesa, sempre divisi in due gruppi con le stesse modalità. Anche in questo caso i partecipanti appartenenti al secondo gruppo, cioè coloro che dovevano nominare ad alta voce gli alimenti da acquistare, lo facevano più in fretta rispetto al primo gruppo. In entrambi i casi è possibile affermare che dire a voce alta il nome dell’oggetto che stiamo cercando ci permette di focalizzare meglio la nostra attenzione su quell’oggetto, permettendoci di essere più rapidi e precisi nella ricerca. In questo caso infatti il linguaggio non è utilizzato per comunicare con i propri simili, ma per stimolare le nostre funzioni cognitive.
Il secondo studio
Il fulcro di questo studio è lo stesso del precedente, cioè dimostrare che parlare da soli non è sinonimo di follia, ma anzi aiuta a migliorare l’autocontrollo, i processi decisionali e diminuisce i comportamenti impulsivi. In generale hanno osservato che ai soggetti a cui veniva impedito di parlare da soli avevano una performance peggiore rispetto a coloro ai quali invece veniva data la possibilità di poter parlare a voce alta con loro stessi. Conversare tra sè e sè infatti permette di avere un autocontrollo maggiore, di accudirci, di esaminarci e perfino di motivarci.
Quante volte ci siamo motivati durante una corsa al parco o ci siamo trattenuti dal mangiare una seconda fetta di torta? La maggior parte delle volte si tratta di messaggi che rimangono nei nostri pensieri, mentre altre volte invece vengono esplicitati. Si tratta quasi di un’abitudine per molte persone, le quali spesso però non si rendono conto di stare parlando con loro stesse ad alta voce. Proprio per questo non dovremmo saltare subito a conclusioni affrettare e definire le persone che parlano da sole come ‘un po’ matte‘ o ‘con qualche rotella fuori posto‘ perché un domani potremmo trovarci noi al suo posto.
Noam Chomsky e la teoria del linguaggio universale
Nel 1965 Noam Chomsky ha sviluppato una teoria che spiegasse in che modo i bambini riuscissero ad acquisire il linguaggio e successivamente a produrlo. Egli ha ipotizzato l’esistenza di un dispositivo innato e biologico, il cosiddetto LAD (Language Acquisition Device), costituito da una serie di competenze ed abilità comuni a tutte le lingue del mondo. Si tratta di abilità di base che facilitano i processi di acquisizione e di produzione del linguaggio nei bambini. Non sono altro che una serie di regole grammaticali che permettono di produrre infinite frasi con un numero finito di vocaboli, acquisiti nel corso del tempo grazie all’esperienza. Inizialmente si costruiscono frasi piuttosto semplici, per poi arrivare alla produzione di frasi e periodi molto complessi man mano che si cresce.
![Noam Chomsky](https://www.ilsuperuovo.it/wp-content/uploads/2019/08/Noam-Chomsky.jpg)
Al contrario di quanto sostenuto da alcuni suoi colleghi, il linguaggio non si baserebbe sulla semplice imitazione di quest’ultimo (visto quindi come un processo passivo), ma al contrario sarebbe un processo attivo che coinvolge il bambino e lo rende pienamente partecipe. Crescendo il tutto diventa sempre più complesso perché col tempo il bambino sarà anche in grado di riportare fedelmente frasi ascoltate da altri, ma sottoponendoli al giudizio della critica, cioè decidendone la loro correttezza grammaticale. Sarà quindi in grado di riflettere non solo sulla forma, ma anche sul contenuto dei discorsi che ascolterà ed ai quali prenderà parte.
La competenza, la struttura superficiale e quella profonda del linguaggio
La competenza linguistica è l’insieme di tutte le strutture ed i processi mentali che permettono la produzione del linguaggio. Sono una serie di regole grammaticali che appartengono alla cosiddetta grammatica universale, la quale permette di capire se le frasi siano grammaticalmente corrette o meno e di capire frasi mai ascoltate prima proprio grazie a quelle regole grammaticali universali, biologiche ed innate che ciascuno di noi possiede.
Per quanto riguarda invece la produzione del linguaggio, Chomsky parla di struttura superficiale e struttura profonda. La prima è costituita da una serie di componenti, come il segnale fisico ed il suono della parola (emessa o udita), mentre la seconda può contenere elementi grammaticali assenti nella prima. Inoltre la struttura profonda è in grado di riprodurre la struttura superficiale grazie ad una serie di trasformazioni, come ad esempio la pronuncia, la fonologia e le cancellazioni.
In seguito però lo stesso Chomsky si è reso conto che parlare in termini di struttura superficiale e profonda potesse trarre in inganno perché il loro collegamento con i processi di acquisizione del linguaggio non era immediato. Ha quindi abbandonato questa dicitura, ma nonostante ciò pensare in termini di due strutture aiuta l’apprendimento sintattico che regola la produzione linguistica.
A beautiful mind: quando parlare da soli e patologia sono associati
John Forbes Nash, Jr. è stata una delle menti più brillanti del nostro secolo. Nel corso del Novecento ha rivoluzionato l’economia con i suoi studi matematici, ricevendo per questo anche il premio Nobel per l’economia nel 1994. Si è dedicato molto però anche alla matematica pura ed aveva la strabiliante capacità di riuscire a trovare soluzioni alternative, mai prese in considerazione fino ad allora, a problemi anche molto complessi. Purtroppo però John Nash è conosciuto non solo per i suoi meriti accademici, ma anche per aver sofferto di una grave forma di schizofrenia paranoica.
![A beautiful mind](https://www.ilsuperuovo.it/wp-content/uploads/2019/08/A-beautiful-mind.jpg)
Il celebre film ‘A beautiful mind‘ vuole celebrare non solo la brillante mente di John Nash, ma anche la sua dura e faticosa battaglia contro la schizofrenia, comparsa intorno ai trent’anni. Nel film infatti ci sono molte scene nelle quali conversa ricorrentemente con tre personaggi: Charles Herman, un suo compagno di stanza, sua nipote Marcee Herman e William Parcher, un membro del Dipartimento della Difesa. Non è stato affatto semplice per lui lavorare, cercare di condurre una vita che fosse il più normale possibile proprio perché non riusciva a distinguere la realtà dall’immaginazione. Il lavoro che Nash ha dovuto fare su se stesso non poteva concedersi pause perché in quei momenti la malattia avrebbe potuto prendere il sopravvento.
Nonostante tutto è andato avanti, ha continuato con i suoi studi e con il suo lavoro, lasciandoci un’eredità importantissima dal punto di vista scientifico. Con il tempo Nash ha imparato ad accettare, ma soprattutto a convivere con la sua malattia, a renderla forse una sua caratteristica.
Martina Morello