Sarebbe stato un cittadino innocente quello colpito dalla Polizia dell’Alabama durante la sparatoria avvenuta nel centro commerciale di Hoover, in concomitanza con i festeggiamenti per il Thanksgiving americano. Oggi, centinaia di manifestanti chiedono risposte e si schierano contro le autorità in divisa.
A pochi giorni dalla morte del 21enne Emantic Fitzgerald Bradford Jr – ucciso a colpi d’arma da fuoco nel centro commerciale di Hoover da parte di uno degli agenti di sicurezza – le autorità competenti hanno diffuso la notizia che il ragazzo potrebbe non essere l’autore della sparatoria, il quale sarebbe quindi ancora in libertà.
L’antefatto
L’episodio risale allo scorso giovedì, mentre la Riverchase Gallery di Hoover era gremita da centinaia di persone in occasione dei saldi del Black Friday: a detta di alcuni testimoni, l’aggressore – immerso in un alterco con un diciottenne – avrebbe estratto una pistola, esplodendo alcuni colpi a distanza ravvicinata che hanno ferito gravemente l’interlocutore. Poi avrebbe continuato a sparare, coinvolgendo nella pioggia di proiettili anche una ragazzina di dodici anni. Solo a quel punto, il sospetto attentatore in fuga sarebbe stato abbattuto da uno degli agenti della sicurezza intervenuti in loco.
200 anime in protesta in memoria di una sola
Il caso – rapidamente dichiarato “chiuso” dalla Polizia – è stato però riaperto dalle proteste dei circa 200 manifestanti che sabato hanno sfilato nel cuore del centro commerciale chiedendo alle autorità di raccontare tutta la verità circa l’accaduto, per poi raccogliersi in un momento di silenzio nel punto in cui il giovane Bradford aveva perso la vita.
“Dov’è il filmato della bodycam e perché non lo vediamo ancora?” avrebbe chiesto un manifestante alle telecamere della CBS News, mentre tra le maggiori testate si diffondeva la notizia che il poliziotto colpevole della morte di Bradford sarebbe stato congedato dopo che, venerdì, la Polizia ha ammesso come il rapporto inziale stilato “non fosse del tutto accurato”.
Questo è infatti quanto si legge in una nota delle forze dell’ordine: “nuove prove ora suggeriscono che, nonostante Bradford possa essere stato coinvolto in alcuni aspetti del litigio, probabilmente non ha sparato i colpi che hanno ferito la vittima di 18 anni“. Una prova a favore del fatto che ci sia ancora un uomo armato in libertà.
Chi era Emantic Bradford?
La vittima, di soli 21 anni, era reduce da un addestramento militare mai portato a termine ma – stando alle parole della madre, April Pipkins – forse sufficiente per autorizzare il figlio a portare un’arma con sé, che potrebbe aver estratto per proteggere gli acquirenti presenti alla Riverchase Gallery in quel fatidico Ringraziamento.
Gli stessi parenti di Bradford avrebbero inoltre scoperto della morte del ragazzo tramite alcuni post sui social media e un video che lo ritraeva, inerme, in una pozza di sangue sul pavimento del centro commerciale. “Stava cercando di salvare quelle persone, ma è stato ucciso” sarebbe stato il commento dell’avvocato civile della signora Pipkins, Benjamin Crump, il quale non si è però esposto circa la questione del trasporto pubblico di armi da fuoco in Alabama.
“Sapevamo che non poteva essere vero” avrebbe altresì affermato Cynthia Bradford, matrigna della vittima, descrivendo il figliastro – soprannominato EJ e figlio di un funzionario del dipartimento di polizia di Birmingham – come un giovane gentile e rispettoso.
Una lotta tra divise
Un bilancio – quello dei giovani afroamericani morti per mano della Polizia statunitense – che non fa altro che alimentare i pregiudizi della popolazione di colore, creando un gap incolmabile piuttosto che un’alleanza contro questo tipo di tragedie. Spostando però in secondo piano l’accento sul colore di pelle della vittima, possiamo osservare come – indipendentemente da questioni razziali – la protesta di Hoover si opponga con sguardo più ampio ad un altro problema della nazione a stelle e strisce: quello dell’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine. Una dimostrazione di come la rivalità tra gruppi diversi non sia “questione di pelle” ma piuttosto di semplice distinzione di ruolo, è data dall’esperimento della prigione di Stanford. Lo studio – condotto nel 1971 da un team di ricercatori capitanato dal professor Philip Zimbardo della Stanford University – prevedeva l’assegnazione a ciascuno dei partecipanti del ruolo di “guardia” oppure di quello di “prigioniero” all’interno di un carcere simulato. Superando di gran lunga le aspettative degli sperimentatori, dopo solo due giorni la situazione all’interno della pseudo-prigione degenerò: i detenuti si strapparono le divise di dosso barricandosi all’interno delle celle e opponendosi alle guardie che nel frattempo avevano iniziato ad intimidirli e umiliarli. Sentendosi giustificate dalla divisa (fittizia, tra l’altro) che indossavano, le guardie arrivarono addirittura ad obbligare i detenuti a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, e a pulire le latrine a mani nude.
A seguito dei drammatici disturbi emotivi e psicologici manifestati dai prigionieri, i ricercatori decisero di interrompere la sperimentazione, provocando da un lato il sollievo dei carcerati e dall’altro il disappunto delle guardie, talmente calate nella parte da aver dimenticato il carattere fittizio dell’esperimento.
Francesca Amato