René Magritte e la pellicola: il cinema guarda l’arte e la usa per esprimersi

Capita spesso, vedendo un film, di provare familiarità con un’ inquadratura: questo perché i registi guardano al mondo dell’arte per ispirarsi nella costruzione dell’immagine. Vediamo perché ciò accade e come mai le opere del pittore surrealista René Magritte sono tra le più emulate.

“Memoria”, René Magritte, 1948 ca. Immagine di dominio pubblico fornita da Flickr.

René Magritte è stato un pittore di origine Belga attivo tra il 1898 e il 1967, uno tra i membri del movimento surrealista in grado di narrare al meglio, con le sue opere, lo spaesamento e l’inquietudine dell’uomo moderno nell’interrogarsi sul significato dell’esistenza. I suoi dipinti trattano di inganno e finzione sovrapposti alla realtà tangibile, riprendendo la filosofia di Shopenhauer. Forse proprio per questo, la sua arte è così vicina al mondo del cinema, regno per eccellenza  della messa in scena e della finzione costruita.

 

“The Truman Show”

A proposito di finzione, tutti ricordano il film “The Truman Show” del 1998 diretto da Peter Weir: il protagonista, Truman Burbank, è un uomo solare e sempre sorridente, che conduce la sua vita tra lavoro e il villino stile “american dream”  che condivide con la moglie casalinga.
Lo spettatore viene da subito informato della vera situazione, ma il protagonista non sa di essere dentro un reality show che racconta la sua stessa vita, ripresa in diretta sin dalla nascita, quando fu prelevato e “adottato” da un’emittente televisiva.
All’epoca dell’uscita del film, il nostro mondo era alle porte del nuovo millennio, e si preparava ad accogliere la rivoluzione digitale e una mentalità nuova e diversa, emblematicamente rappresentata dal sostantivo “reality”. Realtà sotto forma di spettacolo televisivo per le masse, un luogo in cui la vita è illuminata da un sole fatto di faretti e luci da set, in cui ogni movimento, ogni azione è vista da qualcuno che osserva da uno schermo in un luogo remoto. Insomma, niente di cui Orwell non aveva già messo tutti in guardia, eppure c’era davvero qualcosa di sadico e irriverente nell’intitolare il reality show italiano per eccellenza “Il Grande Fratello”, a sfregio dello scrittore.
Tutto ciò era esattamente quello di cui parlava il pittore René Magritte nei suoi dipinti: per esprimere l’impossibilità di individuare l’ingranaggio e il sistema della finzione pur avendone il sospetto, l’artista crea immagini all’apparenza insensate, che colgono di sorpresa lo spettatore lasciandolo spaesato.
Come afferma l’enciclopedia Treccani a proposito dei dipinti di Magritte:

L’immagine non è soltanto una fedele riproduzione di ciò che esiste: può essere anche un inganno, un gioco, uno scherzo. Ma non sarà invece il mondo intero (e la percezione che abbiamo di esso) a essere un grande inganno? Magritte mette davanti agli occhi degli spettatori queste domande, grazie a immagini che non sono logiche e a titoli che non servono a spiegare, ma sembrano custodire ancora meglio il senso del mistero.

Per questo motivo, la scena finale del film “Truman Show”  trae ispirazione da diversi elementi Magrittiani: la scenografia della scala mimetizzata col fondale che il protagonista deve salire per giungere alla libertà, è una fusione dei due dipinti “Architettura al chiaro di luna” e “Il miglioramento”. Il primo, si compone di architetture di scale ed archi (che ricordano quelle dell’italiano De Chirico), e una sfera bianca a terra che fa da contrappunto alla luna piena in cielo. Il secondo, riprende l’idea della porta che conduce ad un cielo azzurro cosparso di nuvole: un riferimento, forse, al mondo delle idee di Platone.
E’ chiaro che il regista Weir, nell’elaborazione di un film così rilevante e complesso a livello semantico, si è sentito compreso da René Magritte, e ha voluto omaggiarlo nella scena finale e più importante di tutto il film, dando vita a una inquadratura che rimarrà negli annali.

Fotogramma della scena finale del film della Paramount Pictures.

“L’esorcista”

Tutti coloro che hanno assistito, terrorizzati, alla proiezione del film “L’esorcista” del 1973, ricorderanno molto bene la scena in cui il prete che deve effettuare l’esorcismo appare, nella una penombra di un lampione sotto  alla finestra della stanza illuminata di Regan, la ragazza posseduta.
Sia la composizione che l’impostazione delle luci della scena riprendono la struttura del dipinto “L’impero delle Luci”.
In questo caso, più che alla filosofia che ispira i suoi quadri, la scelta di riferisi al dipinto è probabilmente dovuta al senso di estraniamento che la composizione restituisce: infatti il film è permeato dall’idea che nella realtà quotidiana ci sia qualcosa di terribilmente sbagliato, a partire dal fatto che le due protagoniste, mamma e figlia, stanno girando un film con un regista alcolizzato e meschino, e che il padre della bambina è lontano e non si cura di lei.
Le manifestazioni demoniache della bambina protagonista, Reagan, non sono una richiesta di attenzione, né frutto di turbe mentali: il problema che la affligge è indecifrabile e inarrivabile, sembra praticamente senza soluzione per tutta la durata del film, fino al finale.
La struttura dell’inquadratura in questione, quella dell’arrivo del prete, funziona su contrapposizioni: il palazzo è tutto buio e l’unica finestra illuminata è quella della camera di Reagan, che viene contrapposta al punto luce del lampione sotto cui cammina il prete.
Proprio come nell’opera di Magritte, questa opposizione restituisce un senso di sospensione e terrore, nel caso del dipinto maggiormente amplificato dal cielo azzurro e sereno in contrasto con l’ambiente scuro davanti.

“L’impero delle Luci” di René Magritte, 1937, MoMa, New York. Immagine di dominio pubblico fornita da Flickr.

“The Handmaid”

Il film del 2016, diretto da Park Chan- Wook, racconta la storia di una giovane ereditiera della Corea del Nord, che viene bistrattata dallo zio, deciso a sposarla per ereditare la sua fortuna, e poi sbarazzarsene.
Oltre ai due personaggi è presente anche quello della ragazza che fa da dama di compagnia alla ricca ereditiera. In uno scambio continuo in cui le due ragazze (e spesso anche lo zio) si sostituiscono tra loro, si mescolano e si confondono, i personaggi risultano contraddittori e caratterizzati da un ventaglio di emozioni ed aspetti molto diversi tra loro.
In questo caso, il dipinto preso come riferimento è “La riproduzione vietata” del 1937: l’opera esprime l’impossibilità di rappresentare fedelmente la natura umana; per quanto l’uomo possa sforzarsi, quando si guarderà allo specchio non vedrà mai se stesso, ma solo l’immagine di ciò che gli altri (ovvero lo spettatore) vede di lui. Per questo motivo, il libro è rappresentato realisticamente specchiato, ma l’uomo no. Nello specchio c’è soltanto ciò che lo spettatore vede.
Nel film di Parl Chan-Wook, il dipinto viene “citato” in una inquadratura in cui, grazie alla somiglianza fisica delle due attrici, è impossibile definire quale delle sue sia la ricca ereditiera e quale la serva. Inoltre, l’incomunicabilità delle emozioni umane viene trasmessa con l’impossibilità che le due donne riescano a guardarsi. L’unica possibilità rimane, dunque, quella di convivere con una solitudine tutta intima e personale, che riguarda l’io di ogni persona e non può riflettersi, mai, nelle persone vicine.

“La riproduzione vietata”, 1937. Immagine di dominio pubblico fornita da Flickr.

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