Sincretismo culturale e tolleranza religiosa: due concetti che già gli antichi conoscevano e l’Italia ha dimenticato

È recente la notizia per cui una scuola di Pioltello ha deciso di chiudere il 10 aprile, in occasione della festa di fine Ramadan. L’episodio ha scatenato subito diverse polemiche sull’opportunità di una scelta di questo tipo che, a detta dei detrattori, minaccia i valori cristiani occidentali. Il tema di fondo è la tolleranza religiosa: un concetto che già l’antichità aveva elaborato.

Busto di Erodoto (Flickr)

La tolleranza e l’intolleranza religiose sono due concetti che l’uomo ha da sempre conosciuto e con cui si è confrontato. Ancora oggi, nel XXI secolo,  il dibattito pubblico si infiamma all’idea che una una religione diversa possa minacciare o soppiantare un intero patrimonio di valori con cui un popolo è cresciuto. Tutto ciò ci spinge a considerare e riflettere sul concetto di tolleranza culturale e religiosa, con la consapevolezza che in un mondo multiculturale è fisiologico che anche le religioni si incontrino e dialoghino. I Greci e i Romani, prima di noi, hanno fatto i conti con questi aspetti: proveremo a raccontare di seguito qualche episodio di questa storia nella consapevolezza che la storia antica ha visto anche numerosi episodi di persecuzioni e discriminazione religiosa.

Erodoto e il relativismo culturale

Erodoto viene definito da Cicerone pater historiae (“padre della storia”) e già solo questo fatto basterebbe a riassumere l’impatto culturale di questa figura. Erodoto, nativo di Alicarnasso (in Asia Minore) e attivo nel corso del V secolo ad Atene, è il primo storico greco di cui conosciamo il modus operandi da cui possiamo ricavarne il pensiero. Egli, nato attorno al 490-480 e morto verso il 430-425 a.C., crebbe in un contesto culturale molto variegato: le poleis dell’Asia Minore, infatti, erano a quei tempi un luogo in cui si incontravano diverse culture occidentali e orientali (greca e persiana in testa). A questo fatto, Erodoto aggiunse anche una certa propensione al viaggio: egli visitò il Vicino Oriente (Persia, Mar Nero, Fenicia, Egitto) e l’Occidente (la tradizione lo vuole tra i fondatori della colonia ateniese di Turi, nell’odierna Calabria). Il variegato background culturale di Erodoto e la sua conoscenza del mondo vicino-orientale lo spinse a scrivere un’opera storica che avesse come tema principale il rapporto tra Greci e Barbari: e così nacquero le Storie in nove libri. L’intenzione erodotea è ben manifestata già dal prologo della sua opera in cui l’autore, conscio che solo la fissazione per iscritto dei fatti storici poteva preservarne la memoria, auspica che:

le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria

Erodoto, nelle Storie, racconta e descrive minuziosamente sia fatti storici propriamente detti ma anche gli usi e i costumi, le tradizioni, le curiosità, i riti sacri, novelle, fatti eruditi: insomma, notizie etnografiche. L’autore dichiara sia di raccontare ciò che ha visto in prima persona (in greco autopsia) sia ciò che gli è stato solo riferito dal altri (in greco akoé). In questo grande impianto storiografico volto ad esporre le analogie e le differenze tra la cultura greca e barbara (che andranno poi a scontrarsi nel corso delle Guerre Persiane), Erodoto nel III libro delle Storie (cap. 38) fa un’affermazione dal carattere innovativo. Egli dice:

Se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo aver ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori di tutte

Questa notazione, a valle del racconto dei folli gesti sacrileghi da parte del re persiano Cambise in Egitto (525 a.C.) che profanò tombe, schernì le divinità egizie e bruciò immagini sacre, giunge in tutta la sua dirompente forza relativistica. Erodoto è consapevole che ogni popolo ritiene le proprie usanze le migliori di tutte: si tratta di una dichiarazione imperniata sul relativismo culturale. Questo concetto è strettamente legato ad un’idea di tolleranza perché, in virtù del relativismo, non è possibile scegliere un sistema culturale o religioso migliore degli altri.

I fori imperiali a Roma (Wikimedia)

Roma e la religiosità inclusiva

E tu, Giunone regina, che ora abiti Veio, ti prego di seguire noi vittoriosi nella nostra città e che tra poco sarà anche la tua, dove ti accoglierà un tempio degno della tua maestosità

Con queste parole, secondo Livio (V 21, 3), il dictator Marco Furio Camillo nel 396 a.C. si rivolse alla dea Giunone per supplicarla di abbandonare la città di Veio, di cui era protrettrice, prima dell’attacco dei Romani. Si tratta del rito dell’evocatio (ex + voco: “chiamare fuori”) e descrive il momento in cui l’esercito romano invocava la divinità tutelare dei nemici affinché essa sostenesse la causa romana e non proteggesse oltre la città da conquistare.

Questo episodio storico è sintomatico della concezione religiosa del mondo romano. L’evento descritto da Livio mostra come Furio Camillo offre a Giunone importanti onori in Roma, qualora ella accetti la richiesta degli invasori: si delinea una mentalità religiosa aperta, in grado di accogliere volentieri le divinità dei nemici, nella consapevolezza che la prosperità dello stato dipende dalla benevolenza degli déi, di tutti gli déi. Con Roma possiamo parlare a tutti gli effetti di una religione inclusiva e permeabile da parte di culti stranieri. Il Pantheon romano, com’è risaputo, consisteva in una riproposizione delle divinità olimpiche greche a cui vennero attribuiti nomi propri diversi. E così abbiamo Giove-Zeus, Era-Giunone, Atena-Minerva, Ares-Marte e così via. Nel corso dei secoli, la Repubblica prima e l’Impero poi, si interfacciarono con numerosi popoli e culture differenti che ne influenzarono l’impianto religioso. Roma, quindi, fondò la propria forza anche nella capacità di tollerare e includere culti e religioni differenti a patto che esse fossero funzionali al benessere dello stato.

Dionigi di Alicarnasso racconta che, dopo la presa di Veio propiziata dall’evocatio, Furio Camillo ordinò ad un soldato di prelevare la statua della dea Giunone per condurla a Roma. Quando il militare chiese, quasi per scherzo,  all’effige sacra se fosse d’accordo o meno con questa sua traslazione, la statua

rispose molto chiaramente che era d’accordo

A Roma anche i templi descrivevano questo spiccato spirito di inclusione religiosa. Il Pantheon, infatti, fatto costruire da Marco Vipsanio Agrippa nel 27 a.C. è un tempio dedicato a tutti gli déi (il greco Pantheon significa proprio “santuario di tutti gli déi)”.

Il giovane imperatore Alessandro Severo (Flickr)

Alessandro Severo e la devozione per più religioni

L’età tardoantica, che convenzionalmente si fa incominciare con la morte di Marco Aurelio nel 180 d.C., fu caratterizzata da un marcato sincretismo culturale e religioso. L’Impero Romano, che ormai da anni aveva a che fare con popoli barbari che pressavano i limites periferici, gradualmente incontrò e assimilò numerosi culti di origine straniera, in particolare orientale. Per comprendere al meglio quanto questa commistione religiosa fece breccia nel popolo e nell’aristocrazia romani, dobbiamo descrivere brevemente le caratteristiche principali dei nuovi culti che si affacciarono sull’Impero Romano.

Tra le religioni orientali ricordiamo il culto di Iside, di Mitra, della divinità solare di Emesa e, infine, di Gesù Cristo. Tutte queste fedi ragionarono in termini soteriologici, ossia prospettavano una “salvezza finale” dopo la morte. In questo periodo storico viene meno il concetto di religio civilis che aveva caratterizzato la Repubblica Romana: ora la speranza di chi ha fede è di poter godere di una vita oltre la morte a seconda del proprio operato nel mondo.

È in questo contesto culturale che nel 222 diventa imperatore il giovane Alessandro Severo. Egli, diventato princeps a soli 14 anni, succedette a Eliogabalo (218-222), ricordato per essere stato un sacerdote del dio El-Gabal, divinità solare di Emesa. L’Historia Augusta, una raccolta di biografie degli imperatori (a partire da Adriano) racconta che Alessandro Severo era particolarmente tollerante e inclusivo dal punto di vista religioso, in linea con il clima generale che abbiamo descritto. Egli aveva un larario (un altare dedicato ai Lari, spiriti degli antenati e protettori della famiglia) su cui c’erano anche effigi di

Christum, Abraham et Orfeum et huiusmodi ceteros

Cristo, Abramo, Orfeo e altri di questo tipo

Questa testimonianza biografica è preziosa da un lato perché testimonia il fatto che ormai la religione sia considerata un fatto privato e personale per cui un individuo può pregare la divinità che preferisce senza la mediazione dei sacerdoti; dall’altro perché ben rappresenta un mondo in cui la tolleranza religiosa è alla base della concezione divina. L’imperatore venera i Lari come venera Cristo. Alessandro Severo pone sullo stesso piano (anche fisicamente nel larario) déi provenienti da contesti, storie e culture diverse che nell’ottica religiosa del princeps collaborano alla prosperità dello stato.

Una breve rassegna come questa, naturalmente, non può esaurire un discorso molto più ampio relativamente alla tolleranza religiosa nel mondo antico che, spesso, fu sostituita da atti di intolleranza e persecuzioni religiose; però, secondo l’opinione di chi scrive, può dare qualche spunto di riflessione in merito ad una tematica molto sentita e dibattuta nella contemporaneità.

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