Tutti a cena da Trimalcione! Il desiderio di apparire da Petronio alla trap music

La descrizione di Trimalcione, liberto arricchito presente nel Satyricon di Petronio, rispecchia per larghi tratti la triste condizione della società moderna.

Voglia di apparire, di capi all’ultima moda, di denaro da accumulare con ogni mezzo lecito e non, mancanza di semplicità, di autenticità, di ricerca del bello senza secondi fini: queste e molte altre sono alcune delle caratteristiche che attanagliano il mondo in cui viviamo.

Il mos maiorum nella storia della società romana

La perdita dei saldi valori di un passato non troppo remoto è stato spesso un argomento centrale e un motivo di crisi in molte società in cui, la nascita di nuovi costumi e tendenze, ha spesso portato a disprezzare quegli ideali che erano precedentemente posti alla base della società stessa. Il mondo latino non fu certamente da meno poiché, trattandosi di una civiltà fortemente tradizionalistica e dalle origini rurali, era molto attaccata ai costumi degli antichi, degli antenati, costumi che venivano indicati con l’espressione “mos maiorum”. Il termine comprendeva in sé tutta una serie di valori che vanno dal coraggio alla lealtà, dalla giustizia alla clemenza, dalla devozione verso gli dei alla capacità di sopportare ogni tipo di avversità, ed il personaggio che incarnava il prototipo dell’uomo in cui confluiscono le virtù della romanità era Enea. Ma chi aveva stabilito questi costumi? Per comprenderlo dobbiamo spostare un attimo la nostra attenzione ai prodromi della società romana, periodo in cui i mores erano una sorta di modello di comportamento, assimilabili a delle leggi orali, che in quanto tali venivano tramandati di generazione in generazione e forse raccolti in forma scritta solo all’inizio dell’età regia da parte dei sacerdoti. È possibile, ad esempio, che le antiche “Leges regiae”, cioè gli atti normativi emanati dal re nel periodo monarchico, fossero proprio la trascrizione di alcuni di quei mores cui ho accennato prima. È importante sottolineare, però, che quando si parla di mos maiorum, proprio per l’origine orale di tali valori, non dobbiamo mai pensare ad una completa e precisa canonizzazione sotto forma di legge di questi costumi, dal momento che gli ideali sottesi sono più legati all’etica e a precise qualità interiori che l’individuo doveva dimostrare di avere di fronte al resto della comunità. I primi attacchi al mos maiorum vennero nel II secolo a.C. e, se vogliamo segnare un limite cronologico più preciso dobbiamo porlo nel 168 a.C., anno in cui si combatté la battaglia di Pidna. In seguito a tale battaglia, infatti, con la sconfitta della maggiore potenza ellenistica dell’epoca, ossia la Macedonia, per Roma iniziava una trasformazione radicale del suo tessuto culturale e spirituale e anche di quello economico-sociale, caratterizzata da una massiccia penetrazione dei costumi di provenienza greca e orientale, che si sovrapposero e finirono per sostituirsi in larga parte a quelli della tradizione, al mos maiorum appunto. Ecco che a Roma nacquero numerosi circoli culturali come il celeberrimo circolo degli Scipioni grazie all’arrivo nell’Urbs di personaggi come lo storico greco Polibio o il filosofo Panezio, dai quali presero il via attività e interessi letterari, filosofici e culturali imbevuti di cultura ellenistica. Ma cosa c’è in tutto ciò di contrario ai “costumi dei padri”?  Il ritagliare degli spazi dalla vita sociale e politica per dedicarli alle arti liberali e, più in generale, l’adozione di uno stile di vita basato sulla benevolenza, sull’apertura, sulla “umanità”, caratteristiche principali che i Romani appresero dai Greci, non sono necessariamente qualcosa che si contrappone ad essi ma che, al contrario, potrebbe e dovrebbe coesistere con esso, nel rispetto dei valori tradizionali, finendo così per rappresentare un motivo di arricchimento piuttosto che di stravolgimento. Peccato che, come vedremo, non vada sempre così…

La “Cena Trimalchionis”: uno spaccato della società del tempo

Un caso emblematico di perdita totale di valori, sostituiti da veri e propri disvalori, ce lo presenta il Satyricon, opera letteraria difficilmente incastonabile in un genere ben preciso attribuita alla figura di Tito Petronio Nigro, detto anche arbiter elegantiae (“arbitro d’eleganza”), personaggio particolarmente in vista della corte di Nerone, improvvisamente caduto in disgrazia presso l’imperatore a causa di una sua presunta implicazione nella congiura pisoniana. All’interno di questa opera, che ci è giunta fortemente frammentaria e la cui storia è difficilmente ricostruibile, l’unica parte che possiamo leggere per intero è la cosiddetta “Cena Trimalchionis”, un lungo episodio che va dal capitolo 27 al 78 dell’opera, che racconta la cena spettacolo a casa del liberto Trimalcione, alla quale partecipano anche i tre protagonisti del ‘romanzo’: Encolpio, Ascilto e Gitone. Pur non offrendoci nessun argomento narrativo importante per lo snodo della storia, la descrizione della cena è per noi fondamentale perché ci offre uno spaccato fortemente realistico e quantomai tragico della società del tempo. I tre personaggi, infatti, dopo essere stati alle terme, giungono a casa di Trimalcione e, già solo camminando per il portico di ingresso, cominciano a comprendere che tipo di persona sia il proprietario di casa, che aveva fatto affrescare i muri con scene della sua vita privata, mettendo in mostra addirittura la sua prima barba che aveva conservato gelosamente. Le cena poi è un susseguirsi di imbarazzanti e grottesche trovate sceniche che denotano ancor meglio la personalità non solo di Trimalcione ma anche dei suoi convitati. Nel corso della cena, infatti, Trimalcione ci appare come il classico emblema del “servo arricchito” che, pur avendo accumulato notevole denaro, non sa come usarlo: unico suo scopo è farne sfoggio di fronte ai suoi ospiti per esaltare il proprio ego. Non da meno sono i suoi convitati, anch’essi liberti, che si improvvisano retori o poeti, ma in realtà sembrano interessati soprattutto alle gioie del cibo e del sesso. Di conseguenza, la cena vede gli invitati parlare degli argomenti più alti possibili quali il senso della vita e della morte, ma finiscono poi per raccontarsi soprattutto storie scabrose o persino macabre, e ci si abbandona al vino e agli incontri erotici. Insomma, da questi capitoli per certi versi anche molto divertenti e buffi, dai colloqui, dai gesti dei convitati, da ogni singola parola pronunciata emerge una società in crisi: i veri valori su cui si dovrebbe fondare una qualsiasi società sembrano spariti senza lasciare traccia e l’unica divinità venerata diventa la potenza economica e l’esibizionismo più sfrenato, unico metro di valutazione della grandezza di un individuo.

La scena musicale moderna come specchio di una società in crisi

Petronio ci parlava di inautenticità, di esibizionismo, di perdita di valori. Nelle sue parole, seppur pronunciate ben 2000 anni fa, sembrano essere descritti alla perfezione  alcuni ambiti del grottesco e inautentico mondo che si sta profilando negli ultimi anni, la cui degenerazione sembra non conoscere tregua. Sto parlando in primis della scena musicale odierna, la prima ad apparire attanagliata nella morsa della crisi e che vede nella “trap music” la sua principale valvola di sfogo. Questo nuovo fenomeno musicale, osannato dai più giovani e divenuto ormai parte integrante, se non catalizzante della musica di oggi, deriva dal rap statunitense, sviluppatosi negli anni ’90 negli Stati del Sud per poi orbitare intorno ai sobborghi di Atlanta. Peccato che, come i nuovi ideali greci penetrarono a Roma portando con sé novità positive ed evolutive ma poi finirono per perdere la loro autenticità nelle mani di personaggi rozzi e frivoli, così anche quella che doveva essere una sorta di innovazione del linguaggio di strada del rap, messa nelle mani di gente interessata esclusivamente a guadagno e apparenza, ha finito per rappresentare il momento più basso e buio toccato dalla musica nell’ultimo secolo. Quello che dovrebbe esprimere un linguaggio di strada e una sorta di ‘riscatto sociale’, infatti, non ha fatto altro che mettere in risalto un tipo di vita sregolato, basato su grandi ricchezze continuamente ostentate e svuotate di ogni tipo di significato, di donne trattate come oggetti da utilizzare per il divertimento di una sera, di droga vista come una panacea per lenire i problemi della vita quotidiana. Specialmente in Italia, la trap ha assunto un’immagine stereotipata basata su tutta una serie di tematiche pseudodelinquenziali così amate dalla fumosa adolescenza moderna quali sesso, droga, violenza, incastonate in un mondo virtuale, finto, fatto di look studiati alla perfezione e di social networks visti come unico mezzo portatore di fama imperitura. Sembra abbastanza aberrante, scorrendo alcuni testi delle canzoni di questi pseudo artisti, leggere frasi come:

Me ne fumo cinque all’ora si, per davvero / E farò una rapina, rrrrahh, per davvero / I frà fanno le bustine, mh, per davvero / E poi le vendono in cortile, mh, per davvero / Scippiamo una p*****a, sì, per davvero / Io lo faccio per davvero

O ancora:

Quanto sei porca dopo una vodka / Me ne vado e lascio un post-it sulla porta / Le more, le bionde, le rosse, le mechesate / vestite da suore o con le braccia tatuate / Le alternative, le snob pettinate, spettinate sotto le lenzuola ubriache”.

Scherziamo? La domanda sorge spontanea: dietro a questa sfacciata esteriorità, che piuttosto che provocare l’ammirazione dovrebbe far nascere una forma di disgusto, simile a quella provata da parte di Encolpio, Ascilto e Gitone alla vista di Trimalcione, cosa c’è di autentico? Cosa c’è di vero dietro quelle collane d’oro, quei denti finti, quei vestiti griffati, quei tatuaggi e quelle pistole finte? Non c’è alcun tipo di ricerca sul piano musicale o su quello testuale, come è accaduto in passato per una buona parte di rap/hip hop italiano, ma solo un’accurata e scaltra strategia di marketing che si serve della forte crisi che i giovani di oggi stanno vivendo per raccattare sempre più consensi e rimpinguare le casse personali. Certamente non dobbiamo farci condizionare dalla vita privata di un’artista nel formulare determinati giudizi, ma quando essa finisce nel prodotto che l’artista offre al suo pubblico finendo per trasmettere ad intere generazioni di adolescenti messaggi così pericolosamente negativi, non si può restare in silenzio. Musica è condivisione, musica è ricerca, musica è espressione di sentimenti che solo con una melodia riescono a sprigionare la propria forza… e se facciamo diventare anche la musica un puro mezzo di marketing, giustificando certe novità come segno di “evoluzione” di un mondo che non può restare ancorato nel passato siamo complici di questa degenerazione. Perché l’evoluzione, il rinnovamento, i passaggi ci devono essere, ma scambiare l’evoluzione con l’involuzione è il più grande crimine che possiamo commettere.

 

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