832 vittime accertate, circa 1.200 detenuti evasi da tre diverse strutture di detenzione nella regione di Sulawesi ed oltre 190mila persone in attesa di aiuti umanitari, di cui 46mila bambini. A pochi giorni dalle terribili catastrofi naturali che hanno prima sommerso e poi visto tremare l’Indonesia, il bilancio appare drammatico. Ma insieme a questi numeri – inespressiva seppur pregnante rappresentazione dei danni dello tsunami e del sisma che hanno devastato Palu e Donggala – esiste una rete sotterranea di danni psicologici, le cui radici daranno i loro frutti molto più avanti, rivelandosi un nemico altrettanto difficile da estirpare.
Da sempre la conseguenza psicologica maggiormente associata all’esperienza di una catastrofe naturale è il cosiddetto disturbo da stress post-traumatico (DPTS), ovvero quell’insieme di profonde ferite psichiche derivanti da un evento traumatico, catastrofico o violento. Esso scaturisce dalla forte imprevedibilità dell’evento e dalla sua gravità: due caratteristiche che impattano sinergicamente sull’omeostasi mentale dell’individuo congelandolo in una sorta di stand-by. Se infatti da un lato la vittima è incapace di riprendere la vita di tutti i giorni (a causa di fattori economici, fisici o sociali) dall’altro è ugualmente impossibilitata ad andare avanti, ritrovandosi attanagliata dal trauma di quell’esperienza.
Il DPST ed il limbo del “day after”
Sul piano letterario ed accademico, i principali sintomi del disturbo – oltre ad un quasi perenne stato di confusione e stordimento – possono essere riassunti dalla cosiddetta “triade sintomatologica”, caratterizzata da intrusioni (come flashback che si sovrappongono alla coscienza, obbligando involontariamente l’individuo a rivivere quei momenti tragici), la tendenza all’evitamento di qualsiasi aspetto riconducibile anche solo indirettamente all’esperienza traumatica e, da ultima, l’iperattivazione fisiologica, caratterizzata da stati generalizzati di insonnia, irritabilità, ansia, aggressività e tensione. Eppure questa “nevrosi di guerra” – altro termine con cui viene appellato il DPTS, poiché inizialmente riscontrato in soldati reduci da situazioni belliche di particolare drammaticità – non è l’unica tra le sindromi provocate dalle catastrofi naturali.
Sindrome del sopravvissuto: perché non sono morto anche io?
A colpire circa il 25% dei “fortunati” superstiti delle catastrofi naturali è infatti, ad esempio, la cosiddetta sindrome del sopravvissuto: uno stato di perenne senso di colpa nei confronti di chi non ce l’ha fatta, che spinge le persone a non credere di meritare questa riconquistata sicurezza e ad autopunirsi psicologicamente per il semplice fatto di essere ancora vivi. Questa condizione patologia venne riscontrata per la prima volta nei sopravvissuti ai lager nazisti e tende a manifestarsi in modo analogo all’interno di varie situazioni: indipendentemente dal contesto in cui si verifica, essa si caratterizza infatti dalla sensazione di “vivere una situazione di privilegio a spese di altri o nel confronto con altri che appaiono maggiormente danneggiati” (Kubany e Manke, 1995) o, al contrario di non aver fatto abbastanza per prevenire il disastro sopraggiunto. Nei casi più estremi, questa sindrome diventa talmente logorante da spingere il sopravvissuto al suicidio pur di espiare tutte quelle “colpe” delle quale si sente macchiato.
Sindrome da disastro: il legame empatico con le vittime
Ad essere vittima dei danni psichici di tsunami, inondazioni, terremoti ed alluvioni non sono però solo coloro che ne sperimentano in prima persona la forza distruttiva, ma anche chi a decine o centinaia di chilometri di distanza ne segue la tragica vicenda. In uno studio condotto da Ian de Terte presso la neo-zelandese School of Psychology della Massey University, anche semplicemente ascoltare o guardare in televisione ripetutamente notizie legate a disastri naturali scatena la medesima sintomatologia tipica del disturbo da stress post-traumatico.
Gli spettatori silenziosi di queste vicende di dolore, perdita e spesso morte iniziano infatti ad essere perseguitate da incubi notturni, accumulando ansia e timori che si ripercuotono sulla vita di tutti i giorni: questo effetto empatico – che colpisce circa il 5% della popolazione – prende il nome di “stanchezza della compassione” (compassion fatigue) e può essere definito come un sentimento di profonda partecipazione emotiva che non solo condivide il dolore delle vittime di una tragedia ma è alimentato dal desiderio di alleviarne la sofferenza.
Sindrome di Buffalo Creek: il trauma cronico delle catastrofi naturali
Uno degli esempi storici più noti della gravità delle conseguenze del DPTS è l’episodio avvenuto nella contea di Buffalo Creek nel 1972, improvvisamente colpita da un’ondata di fango e acqua nera rilasciata dal crollo di una diga di rifiuti di scorie. Le conseguenze per la piccola comunità del West Virginia furono devastanti: su una popolazione di circa 5.000 persone, 125 furono uccise, circa mille rimasero ferite e oltre 4.000 persero la propria abitazione. A seguito del disastro naturale – oltre alle necessarie riparazioni e ricostruzioni strutturali – diversi team di valutazione psichiatrica attuarono svariate osservazioni dell’interazione familiare, riscontrando anche a distanza di due anni reazioni nevrotiche traumatiche nell’80% dei sopravvissuti.
I sintomi erano quelli tipici del disturbo post-traumatico: insonnia, perenne stato di allarme, un sentimento di rabbia impotente mista alla disperazione per le vittime, senso di colpa, stress, tristezza e vergogna. Ciò che però trasformò la vicenda di Buffalo Creek in una vera e propria sindrome fu la cronicità di questi stati psicologici, la cui persistenza continuava a mantenersi tale anche ad anni di distanza, quando ormai le case erano state ricostruite, ma senza delle stabili fondamenta psichiche che le facessero apparire sicure.
Francesca Amato